La parola nell’anno – febbraio
V domenica tempo ordinario A
ECCOMI DI DIO, ECCOMI DELL’UOMO (Isaia 58, 7-10; Salmo 111; 1Corinti 2, 1–5; Matteo 5, 13-16)
di Luisa Riva
Luce, tenebre, giustizia sono le parole che ritornano in tre delle letture di questa domenica sulle quali mi sono soffermata. Parole che abitano la nostra esperienza quotidiana o come desiderio, tensione, speranza (luce e giustizia) o come smarrimento e dolore (tenebre). Parole che parlano di noi, degli altri, di Dio e che abitano la nostra fragilità, ma anche la trascendono, per questo trovano un fondamento e una possibilità.
Il linguaggio di Isaia, come sempre chiaro e diretto, fa risuonare la voce di un Dio che per parlarci di lui ci parla di noi, del nostro oggi, degli incontri e delle azioni che decidono del nostro essere uomini e donne davanti ai suoi occhi e in relazione con lui. Solo nella condivisione con il misero e il povero, nell’accogliere la sofferenza degli altri, nell’opporsi all’oppressione e all’ingiustizia:
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».
Solo la fedeltà al nostro essere uomini e donne, il coraggio di guardarsi nel profondo non per ripiegarsi su sé stessi, ma per ritrovare la comune umanità che condividiamo con gli altri ai quali siamo debitori della nostra stessa umanità, solo questo percorso accenderà anche la nostra luce e le nostre ferite, le paure e le incertezze, i fallimenti e il nostro dolore, potranno rimarginarsi. Perché solo riconoscendo il nostro debito, la nostra finitudine, la nostra insufficienza siamo capaci di aprirci all’invocazione, aprirci a ciò che ci trascende che il piú delle volte solo confusamente sappiamo riconoscere.
Solo allora può nascere in noi una luce, scintilla di una luce piú grande. E quell’«Eccomi!» è l’espressione piú intensa con cui Dio, dopo averci ricondotti alla nostra umanità, ci parla di lui e della sua vicinanza. La luce, la giustizia, la sconfitta delle tenebre sono possibili perché Dio è luce, giustizia e sconfigge anche le tenebre della morte. Luce è il pulsare della vita, è la gioia serena che può permanere anche nelle tenebre perché non nasce mai dall’isolamento, ma dalla condivisione.
Il ritornello del salmo 111,
Il giusto risplende come luce, ci guida a meditare i passi del cammino dell’uomo che può percorrere la strada della giustizia, perché saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Invocare e confidare sono due verbi che esprimono due fili fondamentali della trama di cui è intessuto l’essere umano, entrambi ci dicono la realtà dell’apertura, della mancanza direi, di cui siamo fatti. L’invocazione che spesso sorge spontanea nel nostro smarrimento, talvolta senza neanche aver chiaro un destinatario, ci dice che non siamo autosufficienti, abbiamo bisogno di altri, ma anche di Altro. E per vivere nella luce, nella gioia, dobbiamo esser capaci di confidare, cioè di affidarci e affidare le nostre speranze a qualcuno che sappia e possa dire «eccomi» fondando la nostra stessa speranza. La lettura evangelica ci ricorda poi che
né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Cosí risplenda la vostra luce davanti agli uomini.
Una lucerna non ci fa pensare certo a una grande fonte di luce, ma è sufficiente a fare luce nella casa. Ciascuno di noi può far risplendere anche solo una piccola luce, quella che Dio gli ha donato e che ciascuno è chiamato ad alimentare e a testimoniare nelle opere che rendono gloria a Dio. Una chiamata importante, ma noi dobbiamo restare consapevoli che siamo solo una lucerna. Paolo stesso, scrivendo ai Corinti, dice: «mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione». Ecco, nonostante la nostra debolezza e trepidazione, o forse rimanendo sempre consapevoli della nostra debolezza e trepidazione, possiamo offrire la nostra lucerna ai fratelli, facendo affiorare anche sulle nostre labbra l’eccomi a cui siamo chiamati. E mi piace concludere con le parole di Erri De Luca in Alzaia
Eccomi è voce dei momenti di verità, quando si è chiamati a rispondere di sé. È il passo avanti, lo scatto che fa uscire dai ranghi e porta a uno sbaraglio. È la piú bella parola che si possa pronunciare in quei momenti, un dichiararsi pronti, anche se non lo si è affatto. Prima di usarla bisognerebbe allenarsi a pensarla piú spesso. Buona fortuna a chi dovrà pronunciare oggi il suo difficile «eccomi».
VII domenica del tempo ordinario A
UN NUOVO STILE DI UMANITÀ (Matteo 5, 17-37)
di Mauro Felizietti
Il Vangelo di questa domenica fa parte del celebre discorso della montagna, che inizia con le Beatitudini. È una pagina che scotta, brucia e lascia il segno. Le dichiarazioni di Gesú, indicate dai commentatori come il cuore del Vangelo, sono per un verso sconvolgenti e per l’altro destabilizzanti. Se le Beatitudini possono, a una prima lettura, essere aggiustate e addomesticate, le indicazioni in merito alla non violenza, al perdono, al bene, alla preghiera per i nemici sono chiare e inequivocabili e toccano direttamente l’animo di chi le ascolta. Non è possibile aggirarle, anche se la tentazione di metterle tra parentesi e poi affossarle è sempre in agguato: l’istinto umano va in altra e opposta direzione rispetto al Vangelo. Questa pagina è certamente uno dei brani piú noti per il famoso invito: «porgi l’altra guancia», spesso però ridotto a frase a effetto o peggio a icona di uno stile di vita da perdenti e da ingenui.
Quando ci si confronta con la Parola di Dio, si cede spesso al sottile equivoco di esaltarne l’aspetto morale mentre essa è prima di tutto rivelazione del progetto di Dio per l’uomo. La chiave interpretativa va ricercata nel modo di agire di Dio, e di conseguenza nel nostro essere – e diventare – figli del Padre celeste, nel fare nostra la sua perfezione, ossia la sua misericordia. La perfezione che viene richiesta non è quindi quella di essere impeccabili, come spesso veniva ossessivamente e in modo maldestro insegnato e comandato dai cosiddetti maestri e padri spirituali negli ambienti religiosi e nei confessionali, con esiti negativi e nevrosi spesso devastanti sotto il profilo psicologico.
Cercare di essere perfetti come il Padre significa cercare di amare indistintamente, anche, e soprattutto, chi compie il male e propugna l’odio. Cristo annuncia Dio come Padre che ama tutti i suoi figli. È una logica diversa, capovolta, altra rispetto al comune sentire, soprattutto alla giustizia umana e religiosa.
La portata rivoluzionaria della rivelazione del Padre è mostrare il volto di Dio per quello che è: Amore e Misericordia. Nella Bibbia, figlio è chi si comporta come il proprio padre. Se Dio agisce cosí, anche noi, che siamo suoi figli, dobbiamo fare altrettanto, cercando di essere, sulla terra, figli del Padre celeste. Si è figli che fanno memoria d’aver ricevuto misericordia e che dunque non possono fare a meno di usare misericordia!
Dio non taglia la luce e l’acqua a chi non paga la bolletta. Il suo sole e la sua pioggia, il suo amore e la sua misericordia sono per tutti, perché tutti riconosce come figli, in attesa che lo si riconosca come Padre accettando gli altri come fratelli. Lasciarsi bagnare dalla pioggia e scaldare dai raggi del sole della grazia divina può rigenerare la propria vita ferita in profondità, e può far sperare che la stessa pioggia e lo stesso sole trasformino chi si è fatto nemico.
Gesú ci mostra un nuovo stile di umanità. Tutta la sua vita, fino alla preghiera per quelli che lo crocifiggevano, attesta un amore sconfinato. Il cristiano, chiamato ad assumere il sentire, il pensare, l’agire di Cristo, si troverà sempre a confrontarsi con l’esigenza di sconfinare, di andare oltre le proprie difese e le proprie sicurezze, di uscire dalle trincee: è questa «la piú bella avventura» che siamo chiamati a compiere.