Anziché accettare il male

di Luisella Battaglia

Dobbiamo guardare in faccia il mondo di oggi
con calma e occhi aperti, anche se gli occhi del mondo
oggi sono iniettati di sangue
Mohandas Gandhi, 8 agosto 1942

 

Il 30 gennaio 1948 Gandhi fu ucciso dall’estremista hindu Nathuram Godse. Un museo oggi ricorda l’uomo simbolo della non violenza, colui che – secondo Albert Einstein – le generazioni future avrebbero faticato a credere che fosse mai esistito. Il suo assassino era un attivista del RSS, l’organizzazione culturale e militare la cui emanazione politica, il Bjp, governa l’India da oltre due anni e anche se l’attuale primo ministro, Narendra Modi, che si era iscritto giovanissimo al movimento, si sta mostrando piú come un uomo delle riforme che dell’hinduità assolutista antimusulmana, l’ostilità religiosa alla quale il Mahatma contrapponeva l’ahimsa, il principio della nonviolenza, resta ancora oggi sottotraccia nel paese.

La violenza del forte e del codardo

Che cosa resta, dunque, oggi dell’insegnamento gandhiano? Ma, soprattutto, come è stato compreso il significato della nonviolenza? Malgrado la particella negativa, si tratta – per riprendere le sue stesse parole – della «piú grande e piú attiva forza del mondo». Perché allora è stata sovente definita come accettazione passiva della sofferenza e resistenza passiva? L’enfasi sulla spiritualità della rassegnazione trascura, in effetti, un elemento fondamentale della visione gandhiana. Essa è, innanzitutto, impegno strenuo, azione coraggiosa intesa a far valere i diritti conculcati, strategia che mira all’efficacia nella ricerca della giustizia.
Fondamentale è, a questo riguardo, la distinzione enunciata da Gandhi tra violenza del forte, del debole e del codardo. La prima poggia sul rifiuto morale della violenza e richiede la presenza al massimo grado di tutte quelle virtú – coraggio, abnegazione, disciplina – che sono proprie del guerriero. La seconda è la cosiddetta resistenza passiva, una scelta tattica adottata da chi non si sente abbastanza forte per impugnare le armi o ritiene, per ragioni politiche, che l’impiego della violenza non sia funzionale ai suoi obiettivi. La terza, infine, è l’atteggiamento di chi si astiene dalla violenza per pura vigliaccheria o per motivi egoistici: è quest’ultima la posizione che Gandhi condanna piú aspramente arrivando addirittura a scrivere di preferire la violenza alla codarda sottomissione. E, tuttavia, il modo in cui è stata recepita in Occidente l’opera gandhiana ha rafforzato l’idea che la nonviolenza non possa essere che un ideale morale e non un metodo di azione. Gandhi è stato spesso presentato come un mistico che invita alla conversione piuttosto che come un uomo politico intento a delineare una strategia efficace.
Certo, la sua è una figura molto complessa (lo stesso Nehru, erede spirituale di Gandhi e primo ministro dell’India dal 1947 al 1964, lo definiva «uno straordinario paradosso») a partire dalla sua ferma convinzione che nella sfera politica si possa essere efficaci senza rinunciare ai principi etici. Basti riflettere a come le stesse condizioni di lotta del satyagraha (la forza della verità) – astensione dall’uso e dalla minaccia della violenza; impegno costante di attenersi alla verità, evitando mistificazioni e distorsioni; esigenza di imparzialità, ovvero sforzo di porsi dal punto di vista dell’avversario; formulazione di obiettivi precisi e quindi rifiuto della clandestinità – rappresentino un sovvertimento radicale delle regole tradizionali del gioco politico.

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