Dubitare

di Carlo Carozzo - Il Gallo, dicembre 2005

Stiamo vivendo in un momento storico dove il dubbio non gode di buona fama e tesserne l’elogio e proporlo come dimensione culturale appare un’operazione incomprensibile, sostanzialmente negativa. Ci sono già tante incertezze, si dice, grosso modo non si è piú sicuri di nulla e tu vieni a seminare dubbi e quindi ad accrescere ulteriormente l’insicurezza? Non ti rendi conto dell’assurdità?

Il contesto

Non è infatti un caso che in questo clima post-secolare, di ritorno delle religioni come fondamento della vita comune, trovino udienza i fondamentalismi temperati o radicali, i quali sono, fra l’altro, una reazione di rassicurazione all’età dell’incertezza in cui siamo immersi e di crisi della laicità.
Di fatto oggi vengono non per nulla apprezzati e vanno per la maggiore movimenti e uomini che propongono una cultura dell’affermazione perentoria, drastica: le cose stanno cosí, questa è la verità, questa la soluzione. Dogmatismi, viene da osservare, non c’è dubbio, ma essi tranquillizzano, permettono ancoraggi stabili e consentono pure efficienza, non si perde tempo in discussioni magari conflittuali.
In questa cultura della risposta a tutto tondo religiosa e anche laica dubitare appare, se non una bestemmia, certamente fuori contesto, la sopravvivenza di altre età. La verità c’è già, è chiara, evidente, basta riconoscerla, accoglierla e interiorizzarla. Allora vivremo nella pace.
Dubitare è seminare una pericolosa inquietudine, provocare incertezze nel buon popolo che ha bisogno di serenità visti i tempi, è un vezzo di intellettuali irrequieti e astratti che ignorano come va il mondo e gli umori della gente, come la sua saggezza.
C’è bisogno di ancoraggi sicuri nel tempo del relativismo che fa strame di ogni verità, dove mancano criteri oggettivi e prevale un soggettivismo radicale in cui ciascuno si fa la sua verità, l’adatta ai propri desideri, quando non alle proprie voglie.
L’uomo d’oggi è in cerca di radici, non di dubbi. Di affermazioni chiare, non di punti interrogativi. Anche con la migliore delle buone volontà si porta acqua al mulino del nichilismo per il quale non ci sono valori, la vita è assurda, prevale il non senso.
In fondo invece anche per il nichilista dubitare è sospetto. Perché chi dubita pensa che una verità esista, che i valori ci siano, al piú vanno chiariti e liberati da falsificazioni. L’uomo del dubbio non è quindi un alleato, è un rivale, un afferratore della verità sotto mentite spoglie, un rivale insidioso perché si presenta come compagno di strada, mentre appartiene alla famiglia di chi crede nella verità, anche se dichiara che va cercata perché ancóra non chiara se non ignota.

Quello che dubbio non è

Anzitutto il dubbio non è scetticismo, la negazione che esista la verità. Il contrario del dubbio non è la verità, ma la certezza. Chi dubita crede che la verità ci sia, solo che non la conosce e non l’appagano certe evidenze.
È un cercatore, non un disfattista. Perché allora non si porrebbe alcuna domanda, non sorgerebbe alcun perché, non ci sarebbe posto per nessuna problematicità. Interroga e si interroga con tutto sé stesso per trovare la verità, per scoprire come stiano effettivamente le cose, quale sia il loro autentico senso.
Lo scettico non dubita, sa. È anche lui uomo dell’affermazione sia pure in negativo, l’opposto speculare di chi ha trovato le risposte, ha la verità in tasca e se ne sta tranquillo in sua compagnia. Non cerca la verità, la questione non si pone, non lo può perché la verità è un’illusione, un inganno. Meglio, cerca anche lui, demolisce le false evidenze del vero, è un demistificatore e sotto questo aspetto un alleato del dubitante. Non è neppure il culto del problematicismo assoluto, un problematicismo senza fine, chiuso in sé stesso, senza possibilità di una luce, di una risposta per quanto povera, relativa, provvisoria. Il problematizzare si pone nella feconda logica del bambino inesausto portatore di perché. Se mai va da perché a perché, felice della luce o del barlume che ha scoperto. Non è neppure rifiuto a priori di risposte. Dubito per trovarle. Non saranno assolute, soluzioni chiuse in sé stesse. Saranno provvisorie, come è proprio della condizione umana, ma non per questo meno cercate e benedette. Dubito per scoprire la verità. Non dubito per dubitare, un estetismo da benestanti nello spirito che possono permettersi di giocherellare. Dubito per scovare qualcosa di vero che appaghi la mia sete.
Certo, dubitare non è tranquillizzante, è anche un po’ inquietante. Ci sono dubbi sulle questioni ultime che fanno un po’ tremare. C’è, per esempio, un senso alla vita? E quale? Oppure essa è assurda? Sono domande vertiginose che scuotono fin nelle midolla dell’anima, ma che permettono di scavare e di scovare.
Sono le risposte definitive a tranquillizzare fino all’assopimento dello spirito. I conti tornano. Siamo nel mondo delle certezze adamantine. Non c’è da interrogarsi, basta attingere agli scaffali ben ordinati del sistema, dove tutto è messo al posto giusto.
È sí acquietante, ma uccide la ricerca. Uccide l’umano. Placa sí ogni inquietudine, ma al prezzo dell’immobilismo e dell’inerzia della mente. Un prezzo troppo alto. L’uomo muore, anche se ha l’aria di vivo.

Il senso

Si potrebbe dire che il dubbio è senso critico e metodo. È la critica impietosa delle risposte facili, uno smascheramento delle soluzioni definitive che chiudono la questione, la liberazione della verità dalle incrostazioni che si sono depositate nel corso dei secoli. E insieme positivamente è metodo, l’arte di porre domande che permettono l’avanzamento della ricerca.
La sua forza sta nella domanda che apre problemi, che li pone là dove si dà per scontata la verità. Sorge da un interrogativo semplice: le cose stanno proprio cosí? O sono diverse? E quali sono? Sono domande metodologiche che stimolano la ricerca, che spingono a scavare, scavare per andare oltre il cosiddetto buon senso. Oltre quello che è dato per scontato. Oltre quanto si considera acquisito perché ritenuto solido come roccia.
Sarà proprio vero? Ecco il dubbio che si fa domanda e apre alla creazione di senso, apre al futuro, apre la questione, sollecita risposte anche su problemi che si consideravano chiusi, permette alle nuove generazioni di dire la loro, quindi di esistere umanamente.
La domanda entra come un pungolo nell’esperienza del dubitante e rivela la sua grande fecondità, come scrive il pastore Martin Kunz citato dall’amico Casati:

La domanda ci insegna a vedere, ad ascoltare, a capire. Al contrario la risposta è morta se considerata definitiva e non apre la porta a nuove domande. E le domande nascono dall’oggi. Nessun altro pone le nostre domande per noi, dobbiamo porle noi a noi stessi.
La domanda, se è veramente nostra, ci apre gli occhi sulla realtà, ci insegna a vedere le cose come sono, nella loro complessità. La domanda ogni tanto ci costringe anche a guardare negli abissi di noi stessi, delle persone con cui abbiamo a che fare, negli abissi della nostra epoca, ma anche negli abissi di Dio» (Angelo Casati, La fede sottovoce, Paoline, 2002, p 154).

Per questo l’opposto del dubbio non è la verità, ma la certezza, la sicurezza:

Certezza e sicurezza dicono chiusura: la verità è in tasca, anzi nelle cassette di sicurezza delle varie banche, sia finanziarie che culturali.
Il dubbio le apre, le forza, affinché le banconote della presunta verità possano essere messe in circolazione, discusse alla luce del sole, non tanto quella meridiana, alta e accecante quanto quella dell’alba e del tramonto, la luce vera perché discreta.
Compagni del dubbio sono, appunto, la discussione, il dialogo, il confronto: ogni forma di apertura. Si dubita non per combattere la verità, ma per avvicinarsi alla mèta, in un sentiero impervio (Filippo Gentiloni, Virtú povere. Povere virtú!, Claudiana, 1997, p 40).

A pungolare alla ricerca non è tanto l’insoddisfazione, la percezione di una mancanza, quanto soprattutto l’amore
per la verità, la tensione verso un piú perché essa è sempre piú grande dei nostri approdi. Perveniamo a verità parziali procedendo di tappa in tappa, guai a svalutarle, saremmo sempre al punto di partenza, gireremmo in tondo, invece di procedere verso l’avanti.
Ogni scoperta, per quanto modesta, è una benedizione, un passo piú in là, da assaporare nella gioia, come sa ogni cercatore. Ma appunto è parziale per quanto fosse vasta e frutto di lungo lavoro. C’è sempre un oltre in attesa. Siamo in un esodo verso, con alti e bassi, conquiste e soste, acquisizioni e ripensamenti. Non si pone mai la parola fine, definitivo.
Occorre coraggio per dubitare. Ci sono persone che dicono di non aver mai dubitato. Hanno l’aria di forti, di persone granitiche, in realtà sono fragili, si corazzano con la sicurezza dell’indubitabile. La loro

presunta coerenza è fatta di puntelli, di ancore gettate dentro il porto, per paura del mare aperto. È triste chi professa di non aver mai cambiato idea (Gentiloni, cit, pag. 41).

La verità, cosí, si presenta non come un insieme di formule fisse, definite una volta per tutte, è piuttosto un percorso, un divenire, un cammino, un esodo. È una verità nomade, amante del punto interrogativo.