E allora, l’inferno?

di Enrico Gariano

Spesso, su Facebook, mi sono imbattuto in siti cattolici che, per semplicità, definirei tradizionalisti. Premetto subito che molte delle tesi che propugnano mi trovano consenziente. Pur tuttavia ce n’è una che mi lascia perplesso e che proprio non riesco a decifrare, ed è la loro strenua, accanita, spesso quasi violenta difesa dell’esistenza dell’inferno e, in subordine, della necessità che le pene infernali siano eterne, senza la minima possibilità di una ipotetica, lontanissima remissione, di un perdono. Pur sapendo che per me è uno di quei problemi irrisolvibili in quanto avvolti dal mistero, pur tuttavia mi piace soffermarmi a rifletterci sopra. Ovviamente, alla fine, altro non posso fare che affidarmi alla bimillenaria dottrina della Chiesa cattolica alla quale appartengo e mettermi il cuore in pace.
Una sola volta, che mi sono lasciato tentare e ho inviato alcune mie personali considerazioni in merito: quasi sono stato lapidato via internet come eretico e bestemmiatore, per cui ho subito cessato dal proseguire in una diatriba che non mi avrebbe condotto ad alcuna conclusione.
Ma non ho potuto fare a meno di domandarmi: da dove nasce questa furia, questa assoluta intransigenza nel sostenere l’eternità delle pene infernali, da parte di questi sicuramente buoni cattolici, certo migliori di me, ma che forse, con un pizzico di presunzione, sono convinti di essere già detentori di un posto prenotato in paradiso? E mi tornava alla mente quella parabola un po’ indigesta nella quale il padrone di un campo retribuisce in uguale misura gli operai dell’ultima ora e quelli della prima. A me, e non solo a me, cristiano in un mondo occidentale iper sindacalizzato, tutto ciò mi è sempre parso una stonatura, un’ingiustizia bella e buona che va contro l’assioma che chi lavora di piú merita di piú e viceversa. D’altra parte però è lo stesso Vangelo a spiegarci che ci troviamo di fronte a una verità teologica e non a una vertenza sindacale: chi può vietare al padrone del campo di essere generoso? Ma allora, per spostare il discorso, chi può permettersi l’ardire di insegnare a Dio a chi e come e quando e in che misura egli deve usare la sua infinita misericordia? Giungo al sodo: esiste una sorta di cattiveria cristiana che, in nome della giustizia e di una sana dottrina, si compiace, gioisce nell’ipotizzare un inferno pieno di anime dannate destinate alle pene eterne? E anche questa volta trovo un supporto nella letteratura. In testi diversi ho scoperto tre annotazioni che mi hanno fatto prendere coscienza che queste perplessità non sono solo mie e di oggi, ma partono dal concetto di una apocatastasi sostenuta da Origene fin dai primordi del cristianesimo.
Il primo brano l’ho tratto dal libro di Michel Houellenbecq Sottomissione (Bompiani, 2015) ove l’autore, riferendosi a Léon Bloy, vulcanico scrittore laico cattolico dell’Ottocento, cosí lo definisce:

Sin dall’inizio, infatti, mi era sembrato il prototipo del cattolico cattivo la cui fede e il cui entusiasmo si esaltano davvero solo quando può considerare gli interlocutori come dannati.

Il secondo brano proviene dal romanzo umoristico di Jaroslav Hasek Il buon soldato Scvèik (Feltrinelli, 2003):

A proposito dell’inferno, voi avete certamente idee progressiste e seguirete senza dubbio lo spirito dei nostri tempi e le opinioni dei riformisti. Laggiú, invece delle solite caldaie piene di zolfo, per i poveri peccatori ci sono delle vere e proprie pentole a pressione di molte atmosfere, e i peccatori vi vengono arrostiti alla margarina, li friggono con la corrente elettrica, e per milioni di anni. I dentisti si occupano con macchine speciali del digrignamento dei denti, i gemiti vengono incisi al grammofono, e i dischi vengono mandati lassú in paradiso per rallegrare i beati (vol I, p 155).

L’ultimo è di Fraçois Mauriac ed è tratto dal libro Santa Margherita di Cortona (Mondadori, 1952):

Io amo Pascal, ma odio in lui quel piacere cupo di essere un eletto, dopo essersi persuaso che quasi nessuno lo è. Odio l’avarizia spirituale con cui cerca e assapora tale goccia di sangue versata per lui solo, per lui, non per gli altri. Un giansenista ha mai gridato al suo Dio implacabile: «Scelgo di essere certamente confuso con la folla senza numero di quelli che Tu hai respinti». I santi sconvolgono la logica atroce di Port-Royal. Rompono il sistema. Introducono il loro disordine adorabile nei calcoli della predestinazione (p 63).

Ecco tutto e concludo. Pare che la nostra limitatissima, ma pur sempre splendida mente umana – dono preziosissimo di Dio – si dibatta tra le corna del dilemma sul come far combaciare, far convivere in armonia, mettere d’accordo l’idea di una giustizia infinita con una misericordia e una bontà altrettanto infinite. So offrire una soluzione? Ovviamente no. Solo dichiaro che amo di piú quel santo di cui non ricordo il nome che chiese a Dio di essere posto sulla porta dell’inferno al fine di impedirne l’accesso alle anime dei peccatori; e anche questa norma sapienziale, della quale purtroppo anche in questo caso non so risalire all’autore, che sosteneva: «Io non so se l’inferno sia pieno o vuoto, comunque l’importante è che se anche fosse vuoto, non sia io a inaugurarlo».