2019 aprile

Il cattolicesimo romano è il terreno di cultura in cui siamo nati, dove siamo stati educati e dove abbiamo accolto l’annuncio cristiano: molti, con maggiori o minori condivisioni, se ne sentono ancora partecipi, altri ne hanno preso in diverso modo le distanze. La storia del Gallo ha proposto un’esperienza religiosa cristiana da vivere in comunione ecclesiale nella convinzione che nessuna chiesa, in quanto istituzione umana, possa definirsi società perfetta ed esaurire l’ansia di spiritualità propria dell’essere umano e sempre al fianco di chi condivide la ricerca di libertà, di giustizia, di fraternità.

Questo pur con il rammarico, il turbamento, talvolta la rabbia delle contraddizioni, tradimenti, scarti dalla Parola delle chiese lungo i secoli sostenute anche dalle rispettive autorità. Riconosciuta nelle dichiarazioni semper reformanda, la chiesa, e non solo quella romana, ha spesso emarginato e punito proprio chi aveva impegnato passione e studio per richiamare allo spirito evangelico e alle necessarie riforme: a questa responsabilità ci sentiamo chiamati da quel gallo, speriamo non afono, voluto nella nostra testata.

La ricorrenza annuale della Pasqua è alimento sia della speranza nella duplice dimensione storica ed escatologica, incoraggiamento all’impegno sia nell’agire, sia richiamo alla verifica della fedeltà e della coerenza. Anche la liturgia diventa strumento per interrogarci sui nostri errori, ma soprattutto per chiederci quale sia l’intensità della nostra passione per il Cristo, quanto sia fuoco della nostra vita, richiamo alla fraternità, molto oltre alla disciplina, all’etica e alla speranza di un premio. Cristo è passione, innamoramento, coinvolgimento esistenziale, apertura agli altri, gioia e non perché risolve i problemi, ci tira fuori dai pasticci, appaga i nostri desideri, ci garantisce serenità.

Tutto è presente e complesso nel cuore dell’uomo e nella vita quotidiana di ciascuno e continuerà a esserlo: ma la parola nuova e incredibile resurrezione è un lancio verso una nuova dimensione.

La resurrezione, insondabile e illuminante mistero senza la quale «vana sarebbe la nostra fede» (1Cor 15, 17), liberata dall’idea catechistica e iconografica della rivitalizzazione di un cadavere, appassiona attraverso quelle donne e quegli uomini turbati e spaventati che ne hanno raccontato l’esperienza.

Come l’esperienza dell’innamoramento, immateriale ed essenziale, per chi ha avuto la fortuna di viverlo e qualunque ne sia stato l’esito, apre gli occhi su una vita diversa, testimonia l’intuizione della felicità, il desiderio di fronte a cui tutto diventa secondario, anche se non risolve nessun problema, e forse anzi ne procura. Anche nei felici mesi dell’innamoramento ci si può ammalare, si possono commettere errori e avere delusioni, non si è esenti da lutti: eppure la vita ha un’altra dimensione, da far durare fin che si può.

Anche se fossimo gli ultimi cristiani, non possiamo rassegnarci a una vita spenta, formale, indifferente: nell’idea di resurrezione la fede diventa gioia contagiosa, partecipazione di vita, urgenza di comunicazione. Una comunione in cui condividere gratuitamente il vino superbo di cui sono state riempite le nostre anfore: ancor meglio se esistesse una comunità cristiana in cui stupirci nel sentirci chiamati per nome, come è accaduto a Maria presso la tomba del Signore.