2017 novembre

A tutto si fa l’abitudine. Anche alle parole del Francesco dei nostri giorni che parla al mondo traslocando molti principi, solitamente lasciati alla sfera spirituale, nel mondo reale degli umani qui e ora. Il cosiddetto regno di Dio non è solo un miraggio escatologico, ma anche un modo per attraversare meglio l’esperienza della vita che non sarebbe poi una cosí desolata valle di lacrime se fossero applicati, almeno dai credenti, i correttivi evangelici. L’audience non manca, molti applausi, soprattutto dai diversamente credenti e dai lontani; altrettante vesti stracciate da chi non apprezza il passaggio dalla proclamazione dei principi sempiterni del culto religioso ai discorsi cogenti sulle questioni di quaggiú. I simpatizzanti, però, faticano a mettere in campo concrete iniziative per un rinnovamento della rotta comune in senso bergogliano. Basta pensare all’impiego del denaro che, pur identificato come sterco di satana, ha spesso intessuto le piú discutibili trame vaticane. Certo anche i soldi possono stare dalla parte del bene e sarebbe sciocco sprecarli per incapacità e dabbenaggine, ma un’altrettanta attenzione all’origine e alla qualità degli investimenti potrebbe agire da lievito per la pasta dell’economia mondiale, se solo, giusto per fare un esempio, tutte le parrocchie del cattolicesimo mondiale, – per non parlare dell’insieme dei cristiani – si preoccupassero di scelte etiche, di dividendi estranei al riciclaggio di denaro e al commercio delle armi, perché anche i guadagni possono diventare equi e sostenibili, attenti a non alimentare l’economia dello scarto.

Un altro importante segnavia della road map di Francesco papa è l’enciclica Laudato si’, dove si parla di crisi ecologica come appello a una profonda conversione interiore, di una sfida urgente per proteggere la nostra casa comune, pur se «alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente» e «altri sono passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoerenti» (217). Incoerenti perché la conversione ecologica «comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesú nelle relazioni con il mondo che li circonda. […], essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (217). E allora?

Ecco, per esempio, emergere dall’assuefazione al consenso senza impegno un’iniziativa della Conferenza episcopale francese, la Federazione delle Chiese protestanti e l’Assemblea dei vescovi ortodossi, insieme al locale Consiglio delle Chiese cristiane. «L’idea è quella di tradurre l’impegno comune alla custodia del creato in una serie di impegni concreti da realizzare prima di tutto dentro le strutture ecclesiastiche delle diverse confessioni». Si tratta del progetto Eglise Verte (vedi: www.egliseverte.org/), nato dopo la Conferenza sul clima di Parigi del dicembre 2015. La procedura è quella delle certificazioni degli standard di qualità: le parrocchie, le chiese riformate o le comunità religiose possono aderire all’iniziativa accettando un’eco-diagnosi della propria situazione – dallo stato dei fabbricati e dei consumi energetici, al contenimento e allo smaltimento dei rifiuti – ma anche per quanto riguarda i riferimenti alla Terra nella vita liturgica o le azioni concrete per la promozione di stili di vita eco-sostenibili attraverso gesti e segni comunitari, necessari perché la conversione ecologica riesca a creare «un dinamismo di cambiamento duraturo» (219).

Non si tratta piú di ecologia come bucolico ritorno alla natura, di nostalgia per un eden incontaminato e perduto, ma di un’ecologia che mette i cristiani in prima linea per rendere lo sviluppo umano sostenibile anche per la Terra di cui condividiamo il destino. Una chiamata che non può che rivelarsi ecumenica, come dimostra l’esempio francese. Un esempio unico?