I cento anni di Spoon River

di Manuela Poggiato

La mia copia è tutta sottolineata, già in copertina e nella prima pagina bianca sono citati i titoli delle poesie che mi piacciono di piú.

Serepta Mason: Il fiore della mia vita avrebbe potuto sbocciare da ogni lato / se un vento crudele non avesse intristito i miei petali / dal lato di me che potevate vedere nel villaggio. / Dalla polvere io innalzo una voce di protesta: / voi non vedeste mai il mio lato in fiore! / Voi che vivete, siete davvero degli sciocchi, / voi che non conoscete le vie del vento /né le forze invisibili / che governano i processi della vita. Pauline Barret: Quasi una larva di donna dopo il bisturi del chirurgo! / e quasi un anno per riprendere forza, / fino a che l’alba del decennale del nostro matrimonio / mi ritrovò quasi la stessa. / Passeggiammo insieme nel bosco / per un sentiero coperto di muschio silente e d’erba. / Ma io non potevo guardarti negli occhi / e tu non potevi guardarmi nei miei, / perché il nostro dolore era tanto – un po’ di grigio sul tuo capo, / e io, la larva di me stessa. / Di che cosa parlammo? – del cielo e dell’acqua, / di ogni cosa, per nascondere i nostri pensieri. /… Io guardai nello specchio e qualcosa mi disse: / «Si dovrebbe essere morte del tutto, quando si è morte a metà – e non fingere la vita, non truffare l’amore». / E allora lo feci, guardando lo specchio. / Caro, hai mai compreso?

Domenica 11 settembre Firenze, a San Miniato al Monte, ha celebrato il centesimo anniversario della pubblicazione dell’Antologia di Spoon River scritta da Edgard Lee Masters con un incontro tra teatro e musica che ha visto prima la lettura itinerante delle liriche fra le tombe del cimitero monumentale delle Porte Sante poi il suono di alcune delle notissime canzoni scritte da Fabrizio De Andrè, ispirate dall’Antologia e pubblicate nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo.

La storia della prima edizione italiana dell’Antologia, pubblicata da Einaudi nel marzo 1943, è nota perché rievocata dalla traduttrice Fernanda Pivano in una serie di articoli comparsi sul Corriere d’Informazione negli anni ’60:

Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’era fra la letteratura americana e quella inglese… La aprii proprio a metà e trovai una poesia che finiva cosí: «mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggí».

Francis Turner: Io non potevo correre né giocare / quand’ero ragazzo. / Quando fui uomo, potei solo sorseggiare dalla coppa, / non bere – / perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato. / Eppure giaccio qui / blandito da un segreto che solo Mary conosce: / c’è un giardino di acacie, / di catalpe e di pergole addolcite da viti – / là, in quel pomeriggio di giugno / al fianco di Mary – / mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, / l’anima d’improvviso mi fuggí.

Si dice anche che per ottenere l’autorizzazione da parte della censura di quegli anni venne richiesto il permesso per la pubblicazione di una Antologia di S. River e all’antologia di quel nuovo santo l’autorizzazione fu data.

Amo queste poesie anche perché potrebbero descrivere i miei pazienti. Lee Master (1868-1950) era, suo malgrado, avvocato: avrebbe voluto dedicarsi da subito alla letteratura, ma il padre fece di tutto per dissuaderlo. Io sono medico, anzi medico scrittore, come mi ha recentemente definito qualcuno. Per le sue liriche sí ispirò alle persone conosciute durante l’infanzia trascorsa a Petersburg e a Lewistown, Illinois, a quelle conosciute poi nelle aule dei tribunali, nei corridoi delle carceri. Scriveva le poesie ovunque e dovunque, febbrilmente, nei tempi ritagliati alla professione.

Si dice ci sia una lista precisa con i nomi delle persone, realmente esistite, da lui descritte e che esista ancora una vecchia bibliotecaria che ha conosciuto di persona tutti e ricorda tutti i nomi quanti. Quando, sull’onda del successo dell’Antologia, Lee Master abbandonò la professione che tanto lo aveva ispirato per dedicarsi alla letteratura, non riuscí piú a guadagnare a sufficienza e, terminati i proventi dell’unico suo libro famoso, finí per morire, ormai ottantenne, in miseria.

Pavese scoprí il libro. Dal suo epistolario sappiamo che lo chiese a un suo amico italoamericano che abitava negli USA. Nel novembre 1931 scrive su La Cultura:

«l’importanza di questo libro sta nella risposta non data mai in definitivo, ma sempre rinnovata per ciascun individuo; la convinzione, sofferta in ogni pagina, che, per soddisfacente e definitiva che possa parere una soluzione della vita, ci saranno sempre altri individui che ne resteranno fuori».

Altri individui che la vedono, pensano, in maniera diversa, che possiedono insomma un’altra verità vera. Come è nella vita.

La signora Charles Bliss: Il reverendo Wiley mi consigliò di non divorziare, / per il bene dei bimbi, / e lo stesso consigliò a lui il giudice Somers, / cosí restammo insieme fino alla fine. / Ma due dei bimbi parteggiarono per lui / e due dei bimbi parteggiarono per me. / I due che diedero ragione a lui mi biasimarono / e i due che diedero ragione a me lo biasimarono, / e soffrirono ciascuno per uno di noi, / e tutti si tormentarono per avere osato giudicarci / e si torturarono l’anima perché non potevano stimare / lui e me allo stesso modo. / Ora, qualunque giardiniere sa che le piante cresciute in cantina / o sotto le pietre, sono stente, gialle e rattratte. / Nessuna madre lascerebbe succhiare al suo bimbo / latte malato dal suo seno. / Eppure i preti e i giudici consigliano di allevare la prole / dove non c’è sole ma soltanto crepuscolo, / non calore, ma soltanto umido e gelo / i preti e i giudici!

Il reverendo Lemuel Wiley: Predicai quattromila sermoni / e ressi quaranta revivals / battezzando i pentiti. / Ma nessuna delle cose che ho fatto / risplende piú viva nel ricordo del mondo, / di nessuna mi pregio altrettanto: / ho salvato i Bliss dal divorzio / e tenuti immuni i figli da quella disgrazia / perché crescessero in ambiente morale, / felici essi stessi, e vanto al villaggio.

 E sempre Pavese nell’agosto 1943:

 «Ciascuno di questi morti porta con sé una situazione, un ricorso, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua…»

ma che è sempre possibile condividere, che parlava agli americani degli anni ’40, se è vero che un critico arrivò a dire che chiunque in America sapesse leggere lo lesse quel libro, e nello stesso modo a noi anche oggi, se a cent’anni dalla pubblicazione ne risuonano i versi fra le lapidi a Firenze, certo favoriti dalle canzoni di De Andrè.

Il suonatore Jones: La terra ti suscita / vibrazioni nel cuore: sei tu. / E se la gente sa che sai suonare, / suonare ti tocca, per tutta la vita. / Che cosa vedi, una messe di trifoglio?/ O un largo prato tra te e il fiume? / Nella meliga è il vento; ti freghi le mani/ perché i buoi saran pronti al mercato; / o ti accade di udire un fruscio di gonnelle / come al Boschetto quando ballano le ragazze. / Per Cooney Potter una pila di polvere / o un vortice di foglie volevan dire siccità; / a me pareva fosse Sammy Testa-rossa / quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor. / Come potevo coltivare le mie terre, / – non parliamo di ingrandirle – / con la ridda di corni, fagotti e ottavini / che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa, / e il cigolío di un molino a vento – solo questo? / Mai una volta diedi mani all’aratro, / che qualcuno non si fermasse nella strada / e mi chiedesse per un ballo o una merenda. / Finii con le stesse terre, / finii con un violino spaccato – / e un ridere rauco e ricordi, / e nemmeno un rimpianto.