Il prezzo dell’unità

di Augusta De Piero

Nei dintorni del 4 novembre cominciamo la pubblicazione di una piccola serie di articoli dell’amica Augusta De Piero che dal suo Friuli Venezia Giulia ci rimanda echi da ricordare in occasione delle celebrazioni della vittoria. Siamo nello spirito di revisione critica di quella Prima guerra mondiale certamente occasione di eroismi e di sacrifici, ma soprattutto drammatica storia di nazionalismi, inutili stragi, incompetenze responsabili di centinaia di migliaia di giovani vittime a cui era stato insegnato che «dulce et decorum est pro patria mori».

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Siamo nel 1915. Il Piave non si è ancora esibito nel suo placido mormorio, lo avrebbe fatto piú tardi, anche dopo aver inghiottito i cadaveri straziati di chi era stato sbattuto in acqua dai ponti minati per difendere la patria dallo straniero che non doveva passare.
Intanto una donna con tre figli si spostava da Scicli (Ragusa) a Siracusa per salutare il marito che era stato richiamato con l’ultimo contingente destinato a combattere in quella che chiamiamo Prima guerra mondiale. Fosse nato un anno prima sarebbe rimasto nella sua casa, certamente una povera casa in una terra conquistata per essere donata al re sabaudo che, nella continuità della dinastia, mai si occupò seriamente del Sud. Questione meridionale dicono i testi di storia, un problema i cui protagonisti furono pastori, agricoltori, carrettieri, che la regia burocrazia non dimenticò quando si trattò di chiamarli in guerra. Quando un giorno la moglie del nostro andò a salutarlo a Siracusa non lo trovò. Era partito e la donna non sapeva che non sarebbe tornato. Non le sarebbe stata resa neppure la salma; solo un nome sulla lapide della chiesa di S. Giovanni insieme ad altri 285 nomi.
La tradotta che lo aveva portato al fronte risalí l’Italia in diciotto giorni. La lunghezza del viaggio probabilmente rese ancor piú lontana quella terra del Nord che al suo paese veniva spesso indicata come Piemonte, associata al re nel cui nome si mandava la gente al macello.
Il nostro Guglielmo, cosí si chiamava, non subí il lungo orrore delle trincee dell’Isonzo, ai piedi di Gorizia. Fu ferito dopo pochi giorni e morí di setticemia all’ospedale di guerra di Cormons (Go). I suoi compaesani, come lui richiamati, tornarono a casa, raccontarono e di quei racconti c’è ancora traccia nei ricordi dei loro discendenti che li ascoltarono da bambini.
Uno di loro, che porta il nome del nonno morto a Cormons, si è fatto carico di ritrovarne la tomba e, senza troppo aiuto da parte degli uffici preposti, c’è riuscito, se tomba si può chiamare il povero loculo di Redipuglia con quel beffardo PRESENTE scolpito sulle gradinate [con l’acclamazione «Presente!», pronunciata in coro dai partecipanti, veniva salutato il defunto alla conclusione dei funerali fascisti, uso ripreso da gruppi di militanti anche ai giorni nostri. Il sacrario di Redipuglia (Go) è un cimitero monumentale per 100.000 morti inaugurato nel 1938 e drammatico monito contro la guerra, ndr].
Il nuovo Guglielmo ricorda le voci degli zii, che nella sua infanzia parlavano di luoghi allora difficili da collocare in uno spazio definito e noto: Cormons, Sagrado, Palmanova. Uno di loro, quando diceva Palmanova, si riferiva a un felice, ma non mai descritto nei particolari, incontro con una sorella. Una crocerossina? Una suora? Chissà!
Molti in paese pensavano che anche il fronte fosse un luogo definito, uno spazio limitato, tanto che affidavano a chi vi era mandato sacchetti di lenticchie o altro cibo perché li consegnasse al figlio, al fratello, al marito che avrebbe certamente incontrato come ci si incontra, pensavano, nelle piazze dei paesi. Quei ricordi testimoniano anche di una estraneità totale fra gli ufficiali e la truppa, che spesso non ne capiva neppure gli ordini gridati in italiano con accento piemontese, veneto o toscano. Quanti furono ammazzati in quelle decimazioni praticate per «dare il buon esempio» perché non avevano capito l’ordine ricevuto?
Oggi conosciamo gli spazi stupendi di Scicli attraverso i film del commissario Montalbano, dove la città prende il nome di Vigata, e dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per vedere la Scicli di allora caratterizzata da uno storico abbandono. Solo questo sforzo può darci la misura della devastazione di una cittadina che per una guerra incomprensibile, combattuta chissà dove, perse in pochi anni una significativa parte della popolazione maschile attiva: 286 persone su circa 20.000 abitanti. Il prezzo dell’unità d’Italia.