La Kènosis nei testi biblici

di Giuseppe Florio

Abbiamo considerato nei quaderni di aprile, giugno e luglio/agosto il concetto di kénosis nell’inno cristologico di Paolo nella lettera ai Filippesi, dove viene definito, ma lo stesso concetto torna in altri testi neotestamentari che ora consideriamo.

Lettera ai Corinti

E ora merita esplorare brevemente alcuni brani biblici che sono in sintonia con l’inno appena letto nella lettera ai Filippesi. Anche in vista di una spiritualità della kénosis che in seguito cercheremo di esplicitare.

Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesú Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2 Cor 8, 9).

Anche Paolo, al cuore della sua opera di evangelizzazione, al cuore del kérigma, rammenta il volontario impoverimento del Cristo, la sua kénosis. Qui la kénosis viene tradotta con povertà. L’incarnazione è certamente stata un abbracciare la nostra povertà. Perché noi la potessimo superare. Per Paolo è questa la grazia che un cristiano non può non conoscere. Anche qui ritroviamo il paradosso dell’impoverimento storico di Dio nel Cristo.

Lettera agli ebrei

(v.7) Nei giorni della sua vita terrena egli offrí preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. (v.8) Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patí (v.9) e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, (v.10) essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek (Ebrei 5, 7-10).

Sono versetti che ogni anno proclamiamo nella liturgia del Venerdí santo.
La Lettera agli Ebrei è scritta da un ebreo molto colto, forse 10-12 anni dopo quella inviata da Paolo ai Filippesi. È anche l’unico scritto del N.T. in cui Gesú viene proclamato «sommo sacerdote» poiché, con l’offerta della sua vita e di sé stesso fino all’ignominia della croce, ha per sempre superato il culto del Tempio. Siamo di fronte a parole che meriterebbero un lungo commento.
Abbiamo qui un sacerdote che non solo, a differenza dei sacerdoti del Tempio, è solidale con il suo popolo, ma che, «per il suo pieno abbandono», non permane in potere della morte. Un vero e proprio sacerdote perfetto che apre la via a un culto nuovo, non piú fondato sul principio della separazione. Chi non si separa, chi non si tira indietro, con quale prospettiva vince la morte? Nel nostro testo si afferma senza mezzi termini: «imparò l’obbedienza dalle cose che patí». Da un lato queste parole esprimevano una tipica credenza nell’educazione degli antichi. Ma c’è molto di piú.
Il termine obbedienza proviene dalla radice di un verbo greco che significa: ascoltare dal basso (upakouein). E chi nelle vicissitudini della vita si trova in basso e altro non gli resta che ascoltare? Il servo, lo schiavo. Gesú, il servo, ha condiviso proprio il dolore e la sofferenza di chi si trova in basso e non ha altra scelta. Ecco la prospettiva che vince la morte. E che cosa rende sacerdote proprio questo servo? Che cos’ha da offrire, considerato che compito del sacerdote è proprio l’offerta alla divinità? «Offrí preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime». Non sono pochi coloro che sanno quanto siano vere queste parole! Sono coloro che hanno vissuto l’esperienza umana di imparare a morire.
Sempre nella Lettera agli Ebrei merita menzionare quanto si afferma al cap 13:

Perciò anche Gesú, per santificare il popolo con il proprio sangue, subí la passione fuori dalla porta della città. Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore (13, 12-13).

Gesú è stato crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme, fuori dallo spazio del sacro. In antico i corpi degli animali sacrificati venivano bruciati fuori dall’accampamento (Levitico 16, 27). Lasciamo da parte le usanze delle antiche liturgie, ma, nel caso di Gesú, si tratta di un sommo disonore, di un sommo disprezzo. Il suo popolo e la sua gente, secondo la Legge, lo potevano considerare un maledetto da Dio, uno scomunicato (Deuteronomio 21, 23).
La crocifissione era riservata agli schiavi, ai criminali e ai rivoltosi. Ma qui dobbiamo fare un rilievo di grande importanza: il sacrificio di Gesú, la sua kénosis, non ha niente di liturgico, è al di fuori da ogni apparato sacrale. È tutto molto laico. Un vero scandalo. Ma è cosí che ha raggiunto gli abbandonati di questo mondo. La sua morte raggiunge infatti la nostra umanità, spesso segnata dal sacrificio e dall’umiliazione, e, come vedremo, in certi casi, da una crudeltà inaudita.

Vangeli

Questa coscienza ecclesiale dei primissimi anni la ritroviamo anche nei Vangeli. Prima di tutto si è voluto affermare e proporre il carattere assolutamente unico dell’umanità di Gesú. Bastano solo due esempi.
Ecco come si esprime la comunità del vangelo di Marco.

Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10, 45).

Una sintesi sorprendente. Chi veniva in comunità e chiedeva il battesimo aveva come riferimento, per orientare tutta la sua vita, un servo. Non un eroe, un filosofo, un potente di questo mondo. E il riscatto significa prima di tutto: in rappresentanza di quanti, nella vita, hanno solo subito disprezzo. E sono «molti».
Nel vangelo di Giovanni abbiamo una scena unica: il Maestro lava i piedi ai discepoli.

Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri (Gv 13, 14).

Un gesto che implica gratuità (agape), e molta umiltà. Una kénosis che dovrebbe essere per tutti piú che comprensibile. Da qui è indicato il volto della chiesa di tutti i tempi. Lo ricordiamo visibilmente ogni anno nella liturgia del giovedì santo. Ma in questo brano della lavanda dei piedi è proprio Pietro che non capisce e vorrebbe sottrarsi (Gv 13, 7-8). Gli intellettuali del tempo, i maestri delle scuole di filosofia avranno detto: ma a che serve un maestro che lava i piedi ai discepoli… anche gli schiavi sanno lavare i piedi! In questa scena abbiamo invece l’apertura a un umanesimo nuovo. Che va ben oltre la nostra tendenza all’autoesaltazione. Non a caso, sempre nel capitolo 13, abbiamo il cosiddetto comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, cosí amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34).
È l’amore di agape, cioè l’amore gratuito, che non chiede la reciprocità e non attende la normale, e umanissima, gratificazione.