La parola nell’anno – luglio agosto

XV domenica del tempo ordinario B
FORMAZIONE MINIMA (Marco 6, 7-13)
di Luigi Berzano

È sorprendente la formazione minima che il giovane rabbi della Galilea Gesú dava ai suoi discepoli: nulla, se non lo stile di vita evangelico e il messaggio da annunciare a due a due (Vangelo di Marco, capitolo 6, 7-13). «Con voi non portate borsa, né bisaccia, né sandali», diceva Gesú. Secoli dopo, san Francesco diceva ai suoi fraticelli: «Testimoniate sempre il Vangelo. E, se necessario, anche con la parola». L’annuncio del Vangelo per Gesú non si basava sulla quantità e qualità degli strumenti usati, ancor meno sul denaro. La sola cosa necessaria era l’annuncio che, poco dopo, san Giovanni nella sua prima lettera scriveva: «Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio è in noi» (4, 12). La sola cosa necessaria era il seme da seminare. L’etimo di seme richiama sia l’idea dello spargere con l’andamento ondulatorio sia del generare e del produrre frutti. Quindi sia il seme che il seminatore. Idea fondativa della vita e della società.
Il messaggio evangelico e il cristianesimo si sono sviluppati cosí per i primi secoli con la logica del seme, del seminare, del seminatore. La generatività era quella della vita quotidiana. Non esisteva ancora la Chiesa quale struttura complessa che si formerà in fasi successive fino a quella del Concilio di Trento, ancora oggi sopravvivente, ma in difficoltà.
Questa formazione minima è stata in parte dimenticata fin dall’inizio del Cristianesimo o dei Cristianesimi, come dicono oggi gli storici. Il Gesú storico è stato inghiottito dalle teologie che se ne sono appropriate in mille modi per costruirne un sapere funzionale a gruppi, società e culture. Tanti Cristianesimi iniziali per la costruzione di religioni e mitologie, tra le quali quella piú utile all’impero romano.
Chi annuncia il Vangelo oggi si forma in mille modi e si attrezza di tanti strumenti prima di iniziare. L’annuncio, poi, riguarda un’infinità di conoscenze, precetti, pratiche, liturgie, teologie, credenze, strutture, cariche e altro da proporre ai fedeli. É questa la religione esteriore. Si coglie qui la differenza tra la fede come credenza esteriore e fatta propria solo perché è quella prevalente e la fede come esperienza spirituale, intima ed essenziale, che non ha bisogno di prove esteriori per reggersi.
Un altro tratto dello stile di vita che Gesú richiedeva ai discepoli era di andare a due a due, come se l’essere in due in fraternità e comunione fosse già il messaggio. Il Vangelo, quindi, come la vita fisica, viene trasmesso soltanto quando due condividono talmente la vita, che la vita li rende uno. Anche quando due sposi iniziano il loro viaggio, spesso pensano che il miracolo piú sorprendente, anziché una vita da passare in due, sia il riempire la nuova casa di arredi, stoviglie, quadri e mille altre cose, dimenticando che la vera ricchezza è di essere insieme in due. Forse perché l’essere con un altro con le sue sensibilità e proposte diverse, impedisce di continuare a ripetere sé stessi fino alla noia. L’altro ci salva dal rischio di rendere tutto uniforme e sempre uguale, perfino l’immagine di Dio.
L’annuncio del Vangelo esige infine il non soffermarsi a trarre guadagno dalla propria attività missionaria o a controllarne i risultati. Sarebbe come se un contadino, dopo aver seminato, di tanto in tanto dissotterrasse i semi per vedere se germinano; oppure il fornaio che di tanto in tanto aprisse il forno mentre il pane sta cuocendo. I semi e il pane andrebbero perduti. Il Vangelo è un seme, è un fermento di pane. Dopo averlo messo nel terreno, agisce per forza sua. L’uomo non deve con la sua fretta controllare i risultati della sua testimonianza. Dopo aver pregato, meditato, parlato, celebrato l’eucaristia, il missionario lascia tutto e affida il seme al terreno della vita.
Il Cristianesimo nascente è stato quello del libricino dell’età appena posteriore agli Apostoli contenente una lettera di autore ignoto a un non meno sconosciuto Diogneto. Nel capitolo V è presentato lo stile di vita del cristiano, normalissimo nelle forme e nei gesti, straordinario nel messaggio da annunciare.

Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l’abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e paradossale del loro modo di vivere [...]. E come l’anima è per il corpo, cosí i cristiani lo sono per la società.

 

 

Trasfigurazione del Signore
ESPERIENZA INTENSA DI BENESSERE (Marco 9, 2-10)
di Chiara Maria Vaggi

Negli ultimi tempi nei corsi di aggiornamento per gli psicologi si insiste molto sull’importanza delle esperienze positive vissute da richiamare alla mente e da rivivere nei momenti di difficoltà come percezioni corporee diffuse, soprattutto quelle legate al sentirsi sicuri e ben radicati sulla terra. Una neurocezione di agio o di disagio può precedere e condizionare ogni sentimento e pensiero; se sono solito sentirmi insicuro e minacciato, se questa percezione ha preceduto ogni possibilità di capire o contestualizzare ciò che accadeva, tutta la mia interazione successiva potrà esserne condizionata anche se nessuna minaccia oggettiva incombe su di me.
Se, al contrario, sono solito sentirmi ben ambientato nel qui e ora della mia vita sarò piú aperto e curioso nelle relazioni con gli altri. La possibilità di sentirci a proprio agio, di non dover essere continuamente reattivi alle situazioni, può aprirci anche ad altre esperienze particolarmente intense, che non ci riportano a stati precedenti, ma si configurano come sogni vividi o visioni a occhi aperti verso squarci di orizzonti sconosciuti, che ci possono richiamare un oltre rispetto all’esperienza, una dimensione particolare tra onirica e spirituale che ci arricchisce e ci fa toccare un lembo del mistero dell’esistenza. Può succedere anche quando ci si abbandona ad alcune immagini del cosmo che evocano galassie, buchi neri, buchi bianchi, dimensioni infinite. Non mi sembrano esperienze di naufragio, ma di percezione delle proprie dimensioni reali a confronto con il tempo e con lo spazio.
Io vedo l’esperienza della Trasfigurazione come un momento di apertura e di consolidamento per la fede dei discepoli, una luce che può lasciare sí per un attimo smarriti, ma nella quale è anche bello stare, fare le tende e fermarsi. Perché si sta bene. Partecipano alla scena Elia e Mosé, simbolo della Legge e dei Profeti, figure familiari ai frequentatori della Bibbia, che fortificano il radicamento di Pietro, Giacomo e Giovanni nella fede e permettono loro di abitare la scena con agio, c’è il maestro circonfuso di luce, il Cristo rivelato dal Padre, «Questi è mio Figlio, l’amato, ascoltatelo!»
C’è anche la gioia di chi racconta a distanza di tanto tempo una vicenda che si è conclusa con la Resurrezione e il formarsi delle comunità. Abbiamo bisogno di rinforzi positivi nella vita, abbiamo bisogno di collegare circostanze anche lontane con le nostre credenze religiose, abbiamo bisogno di fede nel senso di Paolo, come fondamento nelle cose che si sperano e sostegno di quelle che non si vedono.
Quanto a Gesú, l’esperienza della Trasfigurazione precede il cammino fatale verso Gerusalemme, quel cammino che intraprenderà solo «indurendo la faccia» per portare a termine la missione. E la decisione finale, tremendamente angosciosa, viene preceduta da un momento intensissimo di comunione con Dio in cui la luce bianchissima e la voce del padre rendono, secondo Marco, l’efficacia del miracolo che rinforza la scelta del dono di sé.