La parola nell’anno – maggio

Ascensione del Signore A
AFFASCINATI DAL MAESTRO (Matteo 28,16-20)
di Paolo Papone
 

Al termine dell’ultima cena, Gesú aveva predetto ai discepoli quello che sarebbe accaduto a lui e a essi di lí a poco – il suo arresto e la loro fuga – e aveva loro dato appuntamento in Galilea dopo la sua risurrezione (26, 32). Non si può certo pensare che, sul momento, i discepoli abbiano compreso quel messaggio; però, al mattino di Pasqua, prima un angelo al sepolcro vuoto, e poi lo stesso Gesú risorto, avevano rinnovato alle donne l’appuntamento per i discepoli in Galilea (28, 7.10).
Perché tutta questa insistenza sulla Galilea? Nella notte di Natale si legge: «Galilea delle genti; il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 8, 23-9,1, cit. in Mt 4,15-16). È umanissimo sentire che la nascita di un bimbo rischiara le tenebre di chi sa di dover morire, tosto o tardi; ma la risposta della Vita non è la risposta alla mia vita, la sopravvivenza della specie non lenisce il mio dolore di sapermi condannato.
La nascita del bambino Gesú non è ancora luce che si leva «su quelli che abitavano in regione e ombra di morte»; molto di piú lo è il suo mostrarsi risorto dopo la morte in croce e la deposizione nel sepolcro. Ecco la buona notizia che moltiplica la gioia, che aumenta la letizia. Se Cristo risorto è davvero il primo di molti fratelli (Col 1, 18; Rm 8, 28), allora non siamo piú prigionieri dell’ombra di morte, noi che, da pagani, siamo diventati discepoli.
«Gli undici discepoli [...] però dubitarono» (Mt 28, 16-17). Quegli stessi che avevano camminato con Gesú; quegli stessi che avevano vissuto il dramma pasquale; quegli stessi che avevano ricevuto l’annuncio della risurrezione, ai quali era stato fissato l’appuntamento in Galilea, che avevano viaggiato fino a quel monte, ai quali Cristo risorto era apparso e davanti al quale si erano prostrati, dubitavano. Non alcuni soltanto, ma quegli stessi, tutti e undici. A questa dubitabonda gente di fede Gesú si avvicina e parla. Nel racconto di Matteo l’ascensione al cielo non è raccontata, ma data per già avvenuta; colui che parla non è solo il Risorto, ma è Colui al quale già «è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Ecco la fonte della missione dei discepoli: come quella Galilea, terra pagana, terra di gentili, era diventata terra di discepoli, cosí i discepoli vengono mandati a rendere discepole tutte le genti. Non si tratta di indottrinare o, peggio, di colonizzare, ma di far risplendere la luce «su coloro che abitano in regione e ombra di morte». Cristo risorto è la risposta alla sete piú profonda di ogni uomo, ma la dimensione storica dell’annuncio cristiano è un’acqua molto calcarea che talora intasa le tubazioni e, malgrado l’abbondante predicazione, lascia gli uomini con un’insoddisfatta sete di Dio.
Nelle parole del Maestro, il battesimo nel nome della Trinità viene solo dopo il discepolato, perché i sacramenti aiutano realmente il cammino di chi, affascinato dal Maestro, ha iniziato davvero a seguirlo. E solo dopo viene l’osservanza dei comandamenti di Gesú, i comandamenti dell’amore, a confermare che l’etica cristiana è la conseguenza di una dinamica spirituale che porta al rapporto con Cristo e a vivere della grazia.
Malgrado tutto, anche i missionari di questo grande annuncio dubitano. Mandati ai pagani, sono pure loro un po’ pagani e cosí sono davvero simili a quel grande sommo sacerdote, Cristo, che «è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza» (Eb 5, 2). Ai dubitabondi discepoli, che comunque lo hanno seguito fino lí, che comunque si sono prostrati davanti a lui, Gesú risorto fa una promessa che conforta, che dà forza: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»; o forse potremmo tradurre meglio: «fino al completamento dell’edificio della storia», perché il progetto di Dio sulla storia e sul mondo ci chiede di cooperare come amici e corresponsabili.

 

 

Pentecoste A
LA LAICA SOBRIETÀ DI DIO (Giovanni 20, 19-23)
di Maria Grazia Marinari
 

Solo due sono i racconti della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli: At 2, 1-11 e Gv 20, 19-23 (in ordine cronologico di stesura) e, come abbastanza spesso nel Nuovo Testamento, racconti dello stesso avvenimento, sono piuttosto divergenti. Luca, infatti, colloca l’evento a cinquanta giorni dalla Risurrezione di Cristo (da cui la denominazione Pentecoste), mentre Giovanni nella sera dello stesso giorno.
Una prima, triste e probabilmente un po’ maligna, osservazione riguarda la tendenza della nascente (ma non solo) chiesa cristiana a sovrapporre le date della salvezza alle feste altrui: dal Natale versus il romano Sol invictus o l’ebraica Chanukkà, alla Pentecoste versus Shavuoth, per non parlare della sovrapposizione fra Pasqua e Pesah, o alla relativamente recente istituzione della commemorazione di san Giuseppe artigiano proprio il giorno della laica festa del lavoro, quasi a proclamare una sorta di appropriazione.
Una seconda, forse piú seria e motivata, constatazione concerne l’intrinseca difficoltà, e nondimeno ineludibile necessità, di provare a inscrivere in parole umane lo Spirito di Dio che aleggia misterioso e inafferrabile lungo tutta la Bibbia e non solo sugli abissi del primordiale Tohu va-Vohu.
In particolare, nel Nuovo Testamento vediamo lo Spirito accompagnare dal concepimento (Mt 1, 8; Lc 1, 34-35) alla croce (Lc 23, 46) la vicenda terrena del Figlio lungo tutte le tappe principali della vita a partire dal battesimo (Mt 3, 13-17; Mc 1, 9-11; Lc 3, 21-22; Gv 1, 31-33). Vale forse qui la pena ricordare come solo Luca affermi che lo Spirito si rese visibile a tutti sotto forma di colomba: per Marco e Matteo solo Gesú vede lo Spirito calare su di sé «come discende una colomba», mentre per Giovanni è il Battista a dichiarare di aver visto «lo Spirito scendere come colomba dal cielo» e posarsi su Gesú.
E lo Spirito accompagna Gesú nel deserto (Mt 4,1; Mc 1, 12; Lc 4, 1); all’inizio dell’attività in Galilea (Lc 4,14); nel compimento dei miracoli (Mt 12, 18 e 12, 28; Mc 3, 22- 30), senza dimenticare la ripetuta promessa di inviarlo dopo la sua resurrezione, fatta da Gesú stesso (Lc 24, 49; At 1, 8; Gv 7, 39; 13, 14; 14, 16-17; 15, 26).
La narrazione della sconvolgente esperienza, che ha trasformato l’esiguo gruppetto dei delusi e spaventati seguaci di Gesú in una moltitudine di testimoni coraggiosi della Buona Notizia, non riesce a sfuggire all’umana fascinazione del magico, unita all’incoercibile tendenza all’idolatria che costella molte esperienze religiose: pensiamo solo al vitello d’oro degli ebrei nel deserto o alla miriade di deva (divinità, in sanscrito), secondo alcuni addirittura in numero multiplo di 33333, deputati a rappresentare l’ineffabile Brahaman dell’induismo. Cosí, l’immaginifico racconto di Luca, riferito nel libro degli Atti, è impresso nelle menti dei cristiani di ogni epoca assai piú di quello dello scarno brano di Giovanni. L’uomo sembra, infatti, incapace di accogliere la laica sobrietà di Dio che a Elia non si rivela nel tuono o nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera o che infonde lo Spirito Santo attraverso il soffio del Risorto.
Attratti e ammaliati dallo straordinario, attendendo forse una fantomatica Damasco – anche senza caduta da cavallo, peraltro non riferita nel racconto degli Atti – che ci apra occhi e menti, fatichiamo a riconoscere l’azione dello Spirito Santo nelle nostre vite, tragicamente dimentichi che le parole piú dure di tutto il Vangelo riguardano proprio il peccato contro lo Spirito (Mc 28-9; Mt 12, 31-32; Lc 12, 13). Auguriamoci allora che le accorate parole di sant’Agostino:

Grande è l’oscurità di questo problema. Perciò chiediamo a Dio la luce per esporlo. Confesso alla vostra carità che in tutte le sante scritture non c’è forse un problema piú grande e piú difficile

possano rappresentare sia una consolazione che uno sprone per la nostra ottusità.