La parola nell’anno – marzo aprile

domenica delle Palme B
IMPARARE AD ASCOLTARE (Isaia 50, 4-7)
di Luisa Riva

Con la domenica delle Palme siamo ormai alle soglie della Settimana Santa, tempo decisivo della vita di Gesú e per la fede di noi cristiani. La prima immagine che associo a questa domenica è di una festa, appunto l’accoglienza festosa di Gesú a Gerusalemme, credo sia cosí anche per altri. Per me in particolare, fin dall’infanzia, la festa era doppia: in quel giorno festeggiavamo anche l’onomastico della mamma. Ma le letture di questa domenica ci introducono alla festa, che sarà poi la festa piú grande della Resurrezione, costringendoci a posare lo sguardo su ciò da cui spesso lo distogliamo e a prestare ascolto a ciò che può essere udito solo nel silenzio. Ci si può avvicinare al mistero della vita solo riconoscendone il dramma da cui non si può sfuggire e la bellezza a cui bisogna imparare ad aprirsi.
Con la chiarezza e la forza che attraversano tutto il libro di Isaia – in cui gli esegeti riconoscono autori diversi –, il profeta ci dice che la lingua data dal Signore al suo servo sa parlare agli sfiduciati, da subito siamo messi di fronte alla debolezza. La debolezza che spesso sperimentiamo in noi o che vediamo intorno a noi. La condizione comune imposta dalla realtà che stiamo vivendo in questi difficilissimi anni ci fa, ci fa rallentare il passo, non ci permette piú di guardare avanti con la fiducia di un tempo. Ma al suo servo il Signore ha dato una lingua da discepolo che sa parlare agli sfiduciati e la forza di questa parola può nascere solo dall’ascolto quotidiano e attento di Dio, ecco ciò che caratterizza il discepolo. Sa ascoltare e ciò richiede sosta, attenzione, silenzio.
Non basta sentire la parola di Dio come si sente in sottofondo il fruscio di una foglia, l’eco di una voce. Ascoltare richiede l’apertura del nostro orecchio, l’atteggiamento del nostro corpo che fa una sosta dal suo affaccendarsi, l’apertura della nostra mente, l’attenzione che arresta il rincorrersi dei pensieri rivolti sempre altrove, l’apertura del nostro cuore che ci fa abbassare le difese, si fa disponibile alla parola finalmente percepibile nel silenzio, perché la parola non è mai gridata, spesso è un sussurro che, quando accolto, diventa potente e diventa efficace se chi ascolta non oppone resistenza. Bastano questi pochi versetti per metterci di fronte alle dinamiche che permettono la relazione fra gli uomini e Dio.
Questa immagine del Servo di Dio, per la tradizione cristiana, prefigura Gesú, il discepolo perfetto che ha ascoltato e accolto la parola di Dio e per questo ha saputo parlare agli sfiduciati e oppressi di ieri e di oggi, ha resistito ai flagellatori e non si è sottratto agli insulti.
Fiducioso in Dio ha reso la sua faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. Gesú compirà fino alla fine la sua missione, irremovibile come la pietra si appresta a compiere il suo difficile cammino verso la croce.
Un esame di coscienza per ciascuno di noi. In tempi sempre piú convulsi e società sempre piú rumorose con tante voci che pretendono di dirci che cosa pensare e che cosa fare, quale silenzio sappiamo abitare per vivere l’ascolto? Domanda che faccio prima di tutto a me stessa. Ma se davvero impariamo a non opporre resistenza alla sua parola dobbiamo non tirarci indietro, non sottrarre noi stessi all’impegno, al coinvolgimento concreto nella realtà che viviamo, coinvolgimento che comporta la fatica, il dolore, l’incomprensione che accompagna chi non rinuncia a testimoniare la verità e la giustizia. Isaia rassicura che Dio sostiene il suo servo che non resterà confuso.
Certo rischiamo di essere travolti quando l’impegno sincero viene frainteso, ostacolato, attaccato: come non essere smarriti e non arrendersi confusi, come rendere la nostra faccia dura come pietra, cioè capace di una resistenza e testimonianza incrollabile se non permettendo alla Parola di mettere radici in noi? E saremo poi disposti a essere coerenti? I giorni della Settimana Santa una occasione in piú per fermarsi ad ascoltare.

 

IV domenica di Pasqua
IL MESSIA E I MERCENARI (Giovanni 10, 11-18)
di Paolo Papone

Il capitolo 10 del vangelo di Giovanni continua le riflessioni iniziate con il miracolo della guarigione del cieco nato (cap 9). Lí si mettono in contrapposizione ironica le autorità del popolo giudaico e Gesú, facendo vedere concretamente quanto sia inefficace quell’autorità fondata sull’uso ideologico dei numerosi e minuziosi precetti della legge giudaica, mentre il vero messia, Gesú, con un semplice gesto e con la sua parola è in grado di fare quello che gli uomini non possono fare: dare la vista a un cieco dalla nascita.
Davanti a un miracolo, che è un’irruzione del soprannaturale nel nostro mondo, sempre nascono discussioni, sia sull’origine del segno, sia sulla sua giustizia, e Gesú non va esente da tali discussioni. Peraltro gli evangelisti, nel raccontare i miracoli di Gesú, mostrano, sí, che le folle si accalcano addosso al Maestro e lui guarisce davvero tanti, eppure i racconti dei singoli miracoli hanno un altro significato: non sono utilitaristici ma esemplari, nel senso che non vogliono risolvere tutte le situazioni difficili esistenti, ma rivelare un aspetto dell’identità di Gesú, chiarire il suo modo di realizzare il progetto del Padre, anzi, la sua profonda unione con il Padre stesso.
In questo senso il vangelo giovanneo è emblematico. Quando Gesú inizia una frase dicendo «Io sono», ogni ebreo ricorda immediatamente che quello era il modo in cui Dio aveva rivelato il proprio nome a Mosè (Es 3, 14); è come se Gesú affermasse, con questa formula, la sua identità divina. Proprio questa sua identità divina gli dà l’autorità per contrapporsi alle autorità giudaiche, le quali pretendono di parlare a nome di Dio, di autenticare il rapporto con Dio nel culto e nell’etica, mentre sono dei mercenari, gente che si arricchisce con un apparente e appariscente servizio che in realtà è dominio sugli altri.
La differenza tra Dio e chi parla di lui è che chi parla di Dio e ottiene vantaggi personali, in realtà è interessato a sé stesso e non alle persone che gli sono affidate; invece Dio difende il suo gregge e va in cerca della pecora che si perde. Chi parla di Dio e ci guadagna, in realtà si muove dentro un gioco sociologico in cui ha una posizione dominante, e per questo è interessato a tenere limitato, chiuso, il campo di gioco. Dio, invece, ha creato il cielo e la terra e «non vuole che alcuno si perda» (2 Pt 3,9): per questo Gesú non indietreggia davanti alla croce per la salvezza di tutti e, se parte dal contesto limitato dell’ebraismo, vuole però raggiungere l’umanità intera: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto».
Gesú si presenta come «il buon pastore», ma nel testo originale greco è scritto «il bel (kalòs) pastore»: credo che sia evocato non solo il pastore autentico di cui parlava il profeta Ezechiele (Ez 34, 11-16), ma anche il protagonista maschile del Cantico dei Cantici, di cui si dice che «pasce il suo gregge» e che «è bello» per la sua innamorata piú di chiunque altro (Ct 1, 8.16).
La tradizione interpretativa del Cantico ha sempre visto in quelle poesie d’amore l’immagine della relazione di Dio con il suo popolo, una relazione densa di desiderio e talora soggetta a momenti critici. Questa eco del Cantico si trova confermata da san Paolo, quando mostra agli Efesini il mistero del rapporto amoroso che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, rapporto che giunge al suo apice quando Cristo dona la sua vita per lei (Ef 5,25).
«E diventeranno un solo gregge, un solo pastore»: letto con sarcasmo, è il programma del grande dittatore, uomo piccino, che gode a far morire i suoi oppositori, quasi illudendosi di poter sopravvivere a tutti. Invece il Figlio di Dio offre la vita e poi se la riprende, in un dinamismo di morte e risurrezione che rivela dove sta davvero la fonte della vita e in quale modo vi si può avere accesso. Tutti coloro che comprendono questo diventano davvero un solo gregge e un solo pastore, la comunità che è una perché è il corpo mistico la cui testa è Cristo.