La parola nell’anno – settembre ottobre
XXII domenica del tempo ordinario B
CHE COSA È IMPORTANTE? (Marco 7, 1-8. 14-15. 21-23)
di Cesare Sottocorno
Gesú si trova davanti ai farisei e ad alcuni scribi, i teologi riconosciuti, il cui compito era controllare che venisse rispettata la Legge: oggi diremmo la gerarchia e i canonisti. Arrivano addirittura da Gerusalemme (magari da Roma?). Era stato loro riferito che i discepoli del profeta di Nazareth, non solo non seguivano le norme della religione giudaica, ma si comportavano «in modo ostinato e contrario» nei confronti della tradizione. Li vedono, infatti, prendere il cibo non avendo prima lavato accuratamente le mani. E si scandalizzano per questo loro modo di agire, una libertà che non è ritenuta in linea con la Scrittura. Addirittura, dall’alto della loro autorità, accusano Gesú perché non rimprovera i suoi discepoli.
Davanti a chi si ritiene depositario della verità, Gesú non si scoraggia, ma risponde con fermezza: per giustificare l’atteggiamento dei discepoli, afferma che le pratiche esteriori degli uomini, anche religiose, nulla hanno a vedere con l’amore per Dio. Gli scribi lo accusano di non rispettare la Scrittura, e Gesú ricorda che il profeta Isaia secoli prima aveva scritto che Dio non si onora con i riti e le labbra, ma con il cuore, con la coscienza, con il comportamento coerente. Ancora una volta li definisce, con asprezza, ipocriti, allo stesso modo di quando li aveva chiamati sepolcri imbiancati perché non avevano capito il profondo significato dei suoi comandamenti.
Alla domanda: «Maestro, qual è il piú grande comandamento della legge?» risponde:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il piú grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti (Mt 22, 36-40).
Gesú «non è venuto ad abolire la Legge o i Profeti, ma per dar loro compimento» (Mt 15, 17), per indicarne il significato ultimo. Si rivolge alla folla e ai discepoli chiede che prestino ascolto attentamente e facciano tesoro del suo insegnamento. Le cose cattive del mondo non nascono da fuori: impurità, malignità, scelleratezze sono sempre generate dalla mente degli uomini.
Gesú dice alle persone che lo seguono, e a tutti noi, di non far uscire dal cuore le cose cattive, ma di essere messaggeri di amore e di serenità. Gli scribi e i farisei, a differenza della folla che si è fermata a sentire le sue parole, non possono o si rifiutano di capire la rivoluzionaria grandezza della nuova legge e del profeta che l’annuncia: questo cambia la vita, non lavare le mani, per quanto accuratamente.
Per entrare in comunione con Dio e glorificarlo, bisogna camminare con gli umili, gli afflitti, i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace, ma si deve anche mangiare il pane, come ha fatto Gesú, con i peccatori, gli stranieri, gli ingiusti, gli oppressori al pari del centurione romano, senza troppa preoccupazione per le mani!
Occorre saper far zampillare, ogni giorno, dal proprio cuore le cose buone: l’amore, la libertà, la compassione, la giustizia, la solidarietà, il perdono. Occorre farsi prossimo come il samaritano e i molti, conosciuti o senza nome, che hanno percorso le vie della storia condividendo «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce […], dei poveri soprattutto, di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et Spes, 1), donne e uomini di ogni tempo.
XXIX domenica del tempo ordinario B
A TOTALE INCONDIZIONATO SERVIZIO (Marco 10, 35-45)
di Massimo Casaro
C’è da rimanere stupiti. Certo, solo quando non siamo consapevoli che la difficoltà dei primi discepoli è anche la nostra. Difficoltà nel credere a Gesú e in Gesú. Di come si faccia fatica a seguirlo. A stargli dietro imparando da Lui che è «mite e umile di cuore». Fino alla croce. Sí, perché questa è la meta del suo e del nostro cammino. Imitare Gesú nel dono che ha fatto della sua vita, senza occuparci troppo di noi stessi, dei nostri interessi (cfr Mc 10, 35-45). È una sfida che si ripete. Forse è inevitabile, forse è naturale. C’è un percorso da fare in ogni apprendimento. La verità ci sta sempre davanti, un po’ oltre. Può essere solo seguita. E lo sarà sino alla fine. Lo hanno imparato anche loro, i primi discepoli, a loro spese, sentendosi rimproverare amorevolmente dal Maestro, o quando hanno misurato tutta la loro viltà abbandonandolo.
E poi certo anche loro sono stati battezzati nello stesso battesimo, e hanno bevuto allo stesso calice. Ma solo dopo. Sempre dopo. Prima hanno voluto qualcosa per sé. Come quando è intervenuta la madre che si è messa di mezzo per chiedere un posto privilegiato per i figli. A volte l’amore rende improvvidi, rende ciechi. Si ferma al limitare degli interessi delle persone che amiamo. E Gesú guardava oltre, guardava lontano. Lui pensava a un Regno per tutti. Quel Regno che il Padre ha preparato fin dalla fondazione del mondo. Il vangelo respira, allarga gli orizzonti. Siamo noi che continuamente li riduciamo, e ci moriamo soffocati.
In un altro brano di vangelo, questa volta di Matteo (16,13-28), alla precisa domanda di Gesú: «E voi chi dite che io sia», Pietro ha risposto in modo esattissimo: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio», ma dava a queste parole dei contenuti sbagliati. Infatti, dopo che il Signore ha spiegato i veri contenuti, lui si ribella: «Questo non deve avvenire mai». Allora Gesú gli dice: «Va’ via da me, Satana…». Il termine greco, però, si può tradurre anche con mettiti dietro ed è bello sentir dire: Pietro, ascoltami, mettiti dietro a me.
Quando si accetta di mettersi dietro al Signore, allora si comincia a diventare suoi discepoli. Anche noi diciamo cose esattissime quando preghiamo, confessiamo la fede pubblicamente, eppure che distanza tra quello che pensiamo e i contenuti veri! Il credente che è in noi segue con fatica il credente che, sempre in noi, dice le cose della fede. Ci costa stare dietro a Gesú. Il noi che deve morire è quello che preferirebbe stare davanti e fare da inciampo al Signore che cammina. Prima ancora del dolore, il diventare credenti è la nostra prima croce (Giovanni Moioli). Pati divina, patire le cose di Dio, troviamo scritto in Agostino. Non è sofferenza, è ricezione. Certo, non è facile a noi che siamo stati educati alle virtú attive percepire l’intatta bellezza delle virtú passive. Di quell’essere raggiunti che poi dispiega le nostre migliori energie, le nostre piú profonde intuizioni. Ma è solo cosí che il discepolo, il cristiano, l’apostolo abbandonata l’ipertrofia autorale, assume la sua forma propria, la sua forma profetica. Quel porsi a totale e incondizionato servizio di quella Memoria condivisa (cfr Gv 17, 20-26) che l’inimicizia, figlia primogenita del peccato, ha compromesso.