La parola nell’anno – settembre

XXIII domenica tempo ordinario A
NON RINUNCIARE MAI (Matteo 18, 15-20)
di Paolo Papone

Come ci si deve relazionare con chi sbaglia? Per capire quello che Gesú dice al riguardo, è necessario leggere i versetti che precedono il brano odierno, ossia la parabola della pecora perduta (nella versione matteana: 18, 12-14), che culmina in questo modo: «Cosí è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda». I «piccoli» in questione non sono i bambini (in aramaico e in greco non vi è equivalenza tra i termini), ma coloro che sono considerati insignificanti, squalificati, disprezzabili; sono tipicamente i peccatori, le pecore perdute, e in quel «perdute» non si sottolinea la responsabilità del perdersi, perché il verbo (planào) è al passivo e oscilla tra il significato dell’essere sviato e dell’essere ingannato.
Gesú sta parlando ai discepoli, al plurale, ma quando tratta del rapporto con chi sbaglia, passa al singolare, usando con straordinaria frequenza il pronome di seconda persona singolare, perché, prima di essere un problema etico o religioso, è un problema di rapporto personale. Si può riflettere sull’etica in teoria, ma non è possibile affrontare un problema etico concreto senza lasciarsi coinvolgere nel rapporto umano con la persona che lo vive. Ecco perché la vera correzione esclude in modo assoluto il disprezzo e l’astio.
Davanti al peccato, che (secondo l’etimo ebraico) è sempre fallimento esistenziale, è una chiusura nell’ego, il cristiano non può che soffrire e cercare di ristabilire un rapporto personale nella piú totale discrezione e delicatezza: «fra te e lui solo». La ricompensa di questo impegno è il fratello stesso, la gioia di aver ritrovato un fratello in colui che si stava squalificando, che stava diventando insignificante, lontano. D’altra parte si sa che il male ha una dinamica perversa, è una spirale che tende a chiudere in sé stessi, per cui non è facile che l’approccio, per quanto umano, sortisca un risultato positivo.
La preoccupazione per il fratello che si svia porterà dunque a cercare un mediatore, un’altra persona che possa trovare aperta nel fratello la porta del cuore. Se anche questo tentativo fallisce, diventa necessario parlarne con l’assemblea, l’ecclesía, la Chiesa: si tratta, infatti, di ricreare – intorno al fratello che si è sviato – un tessuto di relazioni, un linguaggio comune, un sentire condiviso; può essere necessario ripensare lineamenti di fondo, con un’operazione culturale che è possibile solo coinvolgendo l’intera comunità. Solo se tutti questi passi si rivelano inutili, questo fratello sarà «come il pagano e il pubblicano».
Si percepisce un’ambiguità in tale conclusione. Se non c’è posto per alcuna soddisfazione vendicativa, ci potrebbe essere la rassegnazione davanti a una distanza ormai invalicabile, la constatazione amara dell’incapacità di colmare un fossato che si è fatto abisso. Eppure nel vangelo l’unico modello è Cristo e, a differenza di scribi e farisei, Cristo non ha mai allontanato pagani e pubblicani, anzi, li ha cercati e ha fatto sentire loro la vicinanza dell’amore di Dio. La persona e la vicenda di Gesú mostrano che Dio non si è mai rassegnato davanti all’allontanarsi dell’umanità e al suo fallire esistenziale; possono dunque rassegnarsi i seguaci di Gesú? Non devono, piuttosto, fare essi stessi tutti i passi necessari per valicare questa distanza, passi che sono linguaggio, messaggio, gesto solidale, sguardo che non giudica, attenzione affettuosa?
Il giudizio della comunità può avere davvero riflessi trascendenti, anche Gesú lo affermava (18,18), e forse si tratta piú di un rischio che non di una facoltà. Subito, infatti, Gesú aggiungeva che la preghiera di due credenti può ottenere dal Padre qualunque cosa, anche il successo di ciò che, umanamente, pare destinato allo scacco. Purché il cuore dei discepoli sia in sintonia con il cuore del Padre celeste che vuole «che neanche uno di questi piccoli si perda».

 

XXV domenica tempo ordinario A
DA UN’ALTRA PROSPETTIVA (Isaia 55, 6-9; salmo 144, Matteo 20, 1-16)
di Luisa Riva

Isaia ci invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Sembra una formulazione un po’ strana. Potrebbe Dio stancarsi di aspettarci, volersi nascondere, allontanarsi da noi? Non ci è stato detto che ci è sempre vicino? Forse dovremmo leggere queste parole spostando l’attenzione sulla nostra capacità di cercare. Fino a quando noi sappiamo cercare? Fino a quando rimane nell’uomo la capacità di accorgersi di Dio?
Tante cose ingombrano il nostro cuore: la rincorsa confusa verso mete che ci appaiono desiderabili, gli affanni quotidiani, i sentimenti non sempre limpidi, talvolta persino riprovevoli. La capacità di accorgerci di chi o di ciò che ci è vicino diventa sempre piú sfocata. Spesso, amaramente, dobbiamo fare i conti con il rarefarsi fino al dissolversi delle relazioni con chi pure ci ama, è vicino a noi, ma noi non sappiamo piú vederlo, cercarlo e ci sembra che sia lui che non si fa piú trovare.
Isaia invita l’empio e l’iniquo, finché è in tempo, ad abbandonare la sua via. Colui cioè che non è capace di pietà, nel senso originario di pietas, cioè di amore verso Dio e verso gli uomini e colui che agisce senza equità e giustizia non è piú in grado di cercare, cioè di entrare in relazione con ciò che è altro da sé. Non troverà dunque né Dio né gli uomini. C’è spazio nel nostro cuore per continuare a cercare? Ma il Signore è misericordioso e il suo perdono è largo, perché il suo sguardo non è il nostro, il suo cuore rimane sempre aperto. E il salmo 144 che ci ricorda la vicinanza del Signore a chi lo invoca e lo cerca con cuore sincero, afferma pure:

Paziente e misericordioso è il Signore,
lento all’ira e ricco di grazia.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Non si tratta della vicinanza di Dio a noi, ma della nostra a lui. La tenerezza di Dio si espande su tutte le creature: è molto bella questa immagine che dà l’idea dell’effusione pervasiva e gratuita di un amore la cui prospettiva persino difficilmente riusciamo a comprendere, tanto ci sovrasta ed è ampia verso tutti.
E la pagina del Vangelo ce ne dà una ulteriore conferma. Le parabole con la forza del racconto sollecitano la nostra immaginazione, ci aiutano a metterci nei panni degli altri, proviamo empatia o distanza per i protagonisti, il nostro sguardo assume prospettive diverse e spesso, da questi nuovi punti di vista, scopriamo anche qualcosa di noi.
Qui ci viene proposta la parabola del padrone della vigna che cerca lavoratori per il suo campo. Assunti in diverse ore del giorno, alla fine i lavoratori ricevono tutti la stessa paga. Naturalmente questo suscita il malumore, forse anche il risentimento, di coloro che avevano lavorato per tutto il giorno che ricevono solo il denaro che era stato con loro pattuito, come pure coloro che avevano lavorato solo poche ore. Credo che tutti noi lettori proviamo comprensione per tale reazione. Eppure la risposta del padrone, piuttosto asciutta e sbrigativa, ricorda loro di aver rispettato il contratto fatto con loro. Il pattuito è stato dato.
La sua azione non viene meno al principio di giustizia: ci insegna però che la giustizia, pur necessaria, non è sufficiente. L’adempimento del contratto, della legge, è per il cristiano il primo passo indispensabile, ma non pone fine alla sua responsabilità. A noi resta la riflessione: da quale prospettiva nascono i nostri giudizi? Quali motivazioni guidano le nostre azioni? Il racconto cosí concreto della parabola riesce piú di qualsiasi altro astratto discorso sull’amore di Dio a farci capire che le sue vie non sono le nostre vie, e questo apre il cuore dell’uomo alla speranza.