Qumran e dintorni

di Ugo Basso

Apocrifi, letteratura intratestamentaria, manoscritti del Mar Morto, tradizione enochica, esponenti di uno scoraggiante linguaggio specialistico, sono diventati intriganti finestre sulle origini del cristianesimo grazie alle relazioni di Gabriele Boccaccini, Liliana Rosso Usigli e Giovanni Ibba, coordinati da Guido Armellini, in una settimana di studio, – Un universo da scoprire: gli Apocrifi dell’Antico Testamento e i loro influssi sul cristianesimo nascente – organizzata da Biblia alla fine dello scorso agosto nella fresca accogliente foresta vallombrosana.
Senza seguire le complesse argomentazioni, le analisi dettagliate e i commenti a singoli brani che hanno occupato giorni di studio e di dibattiti, tenterò una sintesi personale, come un affaccio su mondi culturali del passato, valendomi anche di precedenti studi di Paolo Sacchi, a cui tutti i ricercatori dell’area sono debitori. Uno studio sui due secoli a cavallo della nascita di Cristo, periodo complesso di incontro fra diverse culture in cui dallo stesso grembo (Boccaccini) culturale e spirituale si sviluppano l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo con reciproche influenze maggiori di quanto si suole immaginare.

Apocrifi dell’antico testamento

Si indicano cosí i numerosi testi nell’alveo della religiosità giudaica, scritti in aramaico, ebraico e greco, non accolti nel canone biblico e non presenti nella prima traduzione in greco dell’intero corpo biblico cosiddetto dei Settanta (II secolo aC). Molti di questi testi erano già noti, altri ignoti fino alle scoperte dei manoscritti ritrovati negli anni quaranta del secolo scorso nelle grotte di Qumran, presso il Mar Morto, dunque in tempi molto recenti. Gli ebrei, e anche i cristiani, considerano i testi canonici come ispirati, dunque particolarmente importanti per la rivelazione della parola del Signore e fondamento della religione. Per l’ebraismo ortodosso il testo canonico ha un carattere sacro tale che solo toccarlo brucia le mani a chi non ha il diritto di farlo.
La definizione appare semplice, ma in realtà ci troviamo di fronte a una realtà fluida e complessa: si tratta di una quantità di testi contenenti la ricerca dell’uomo religioso sui grandi problemi del male, della salvezza, della responsabilità e nei quali cercare la rivelazione divina che non è mai dottrinale e definitoria. Poniamo alcune osservazioni riguardo la canonicità: ci sono stati per secoli, prima delle definizioni dei canoni, credenti che non si sono neppure posti il problema della canonicità, attingendo a tradizioni orali di diversa consistenza; la dichiarazione di canonicità di un testo è decisione di uomini, a volte arbitraria e condizionata dalla cultura e dall’epoca, comunque sempre molto tarda rispetto alla redazione e alla fruizione religiosa del testo stesso, trasmesso oralmente anche per secoli prima di trovare una forma scritta: nella chiesa cattolica il canone definitivo è stabilito dal concilio di Trento (1545-1563). Non esiste un canone universale valido per tutti: solo alcuni testi, per esempio la Torah, godono di un riconoscimento canonico pressoché universale, mentre ci sono differenze nel riconoscimento della canonicità anche fra la chiesa romana e le chiese cristiane riformate. Il numero dei testi canonici varia nei diversi canoni e al loro interno non sempre vengono divisi allo stesso modo: nei testi canonici non tutto è chiaro, coerente motivato e talvolta la comprensione è facilitata dal confronto con scritti apocrifi. Gli stessi testi sono riportati in diversi manoscritti con varianti non irrilevanti, attribuibili a errori di trascrizione, ma anche a riferimenti a tradizioni diverse. Dobbiamo infine considerare che noi avviciniamo questi testi in traduzioni inevitabilmente interpretanti.
La questione delle traduzioni è cosí rilevante che di fatto si è attribuita una sorta di canonicità, e quindi di ispirazione, almeno a due: quella dei Settanta, una lettura greca della scrittura realizzata all’interno della cultura giudaico-ellenistica, canonicità richiamata alcuni anni fa da Benedetto XVI. E in qualche modo canonica è stata riconosciuta dalla chiesa la traduzione di san Gerolamo, nota come Vulgata, ancora oggi versione ufficiale per la liturgia cattolica, senza verifiche sugli originali ebraici o aramaici. Del resto è noto che il Corano, considerato dagli islamici parola di Dio, non può essere letto nel culto se non nell’originale arabo.

Continua sul Gallo stampato… e nel seguito:
  • Il problema del monoteismo
  • L’ebraismo all’epoca del secondo tempio
  • Il libro di Enoc
  • Il male, la salvezza, il messia
  • Ricerca laica e credenti