Una Messa lunga un giorno

di Luigi Brusadelli

Ringraziamo l’amico Luigi Brusadelli, impegnato da mezzo secolo ai confini dell’Amazzonia nell’offrire una famiglia a persone per diverse cause abbandonate nella miseria, per questa nuova testimonianza in un Brasile sempre piú compromesso e inquietante nel proprio interno e sul piano internazionale.

4 maggio

Anche oggi la celebrazione eucaristica è durata dalle 6 del mattino alle 11 di sera.
Alle 10 del mattino, c’è stato il raduno dei fedeli dentro e fuori della nostra chiesetta di legno: sono ciechi, lebbrosi, cerebrolesi, paraplegici, tetraplegici, ammalati mentali, ammalati di Parkinson, due ex condannati per omicidio, schizofrenici e altri. In questi tempi di coronavirus, gli altri, quelli sani, che sempre frequentavano la nostra comunità non ci sono.
Oggi, domenica 3 maggio, a questo incontro eucaristico, Gesú il Cristo, con la sua parola, è esempio e luce per la nostra vita, e si dona come «servo giusto» a noi per puro amore, gratuitamente e poi noi «lo offriamo a Dio» come vera preghiera, che ci giustifica e valorizza.
Mancava Jaime di 68, anni, che era da noi da solo 4 anni: viveva in strada, completamente dipendente dall’alcol e da varie altre droghe. Oggi lui, prestissimo, è volato in cielo, per essere abbracciato dal buon pastore. I medici ci avevano avvisato che la cirrosi epatica di cui soffriva era irreversibile, quindi la messa è incominciata, prima delle 6 del mattino. Infatti abbiamo lavato il corpo di Jaime, lo abbiamo vestito con il vestito piú bello che avevamo in casa, e forse per la prima volta nella sua vita gli abbiamo messo i calzini, colorati. Ci sembrava un signore: dal suo viso si vedeva che non aveva sofferto durante l’agonia, ma adesso bisognava pensare agli altri 57 interni, tutti dipendenti da aiuti.
Occorreva preparare la colazione, poi trovare un medico per fare il certificato di morte. Come è di prassi qui, nella «nostra bella Amazzonia», bisogna caricare il defunto su una macchina o barca e portarlo all’ospedale dove il medico esce dal consultorio e, per strada, certifica che quella persona è morta e firma il documento di morte, che noi stessi abbiamo compilato prima.
Ma un nostro infermiere, che ha anche la patente, stamattina ha dormito piú del solito e non è venuto a lavorare: allora abbiamo telefonato a un’altra infermiera, che era di riposo, e questa subito si è presentata.
Intanto la messa è continuata…
Jaime non ha parenti, o amici: quindi dobbiamo noi fare il funerale, trovare una cassa da morto – in casa ne abbiamo sempre qualcuna pronta che facciamo quando c’è poco lavoro –: ma decidiamo di tentare di chiederla alla prefettura, la quale subito ci accontenta.
Intanto il pranzo è preparato: viene servito subito dopo l’incontro in chiesa, dove quasi tutti con fede hanno fatto la comunione. Un momento di vera commozione, soprattutto quando Fernandes, che ieri ha compiuto 42 anni e da 12 è affetto di sclerosi multipla, riesce ad aprire la bocca e con quegli occhi enormi, che lui ha e sembrano ringraziare, emozionato, riceve il «pane del cielo», l’eucarestia.
Quindi la messa continua nella sala da pranzo, dove si imboccano i piú ammalati, si dialoga, si scherza, con battute semplici e si canta. Poi si raccolgono i resti del mangiare per alimentare i nostri animali e si lavano i piatti.
Finalmente abbiamo tutti i documenti per seppellire Jaime. Telefono al mio amico Deuzito, che lavora nel cimitero, e chiedo se riesce ad aprirmi una buca, tra i 67 tumuli che abbiamo a disposizione, per seppellire il nostro Jaime. Nella «nostra amata Amazzonia», di un corpo seppellito in queste casse di cartone, dopo 5 anni non rimane quasi niente. Si controlla, dove si può seppellirlo e, al massimo in un’ora, il nuovo tumulo è pronto.
Alcuni dei nostri vanno a riposare dopo il pranzo, altri ascoltano la radio o guardano la tv. Io la Dalva e l´Evandro, i piú sani, alimentiamo i nostri maiali, conigli, galline, anatre e i quattro cani da guardia.
Subito arriva l’ora del tè e alle 16 ci troviamo intorno al feretro di Jaime per l’ultima preghiera e saluto. Nessuno piange, anche se c’è un certo rispetto nell´aria: sicuramente in quel momento chissà quanti pensieri passeranno nelle teste dei presenti. Anch’io rifletto e mi sento di dire: «Ho fatto tutto quello che potevo fare per lui. Opera compiuta».
Animano il rosario Zaccaria, che ha 21 anni ed è paraplegico, e Rafael, che è del sud del Brasile e ha studiato teologia in seminario fino al diaconato, perché non ha voluto essere consacrato prete per sposarsi; la moglie, però, dopo poco tempo, lo ha abbandonato e lui, deluso, è venuto al nord in cerca di oro nei garimpos (in portoghese, luoghi in cui operano i cercatori d’oro, ndr), ma, solo dopo pochi giorni che era lí, un ictus celebrale lo ha paralizzato.
Benediciamo il corpo di Jaime, che nel frattempo era stato coperto di fiori del nostro giardino: rimetto nelle sue mani la corona del rosario, come un gesto amichevole di affidamento a Maria. In un attimo mettiamo il coperchio della cassa con le quattro viti con la cima a farfalla e chiudiamo il feretro…
Sul nostro Fiat Ducato vecchio di 22 anni, ma ancora in perfetto uso, dove sono stati tolti i sedili, carichiamo il feretro. Solo in due andiamo al cimitero. La tomba era già pronta, nessuno ha pianto: diciamo l’ultima preghiera e subito la cassa scende veloce nella fossa. Bastano 6 minuti e tutto è finito…
Portiamo a casa la croce che era infilata sulla tomba: domani la puliremo e scriveremo dietro il suo nome Jaime Freitas da Silva. Sul davanti della croce rimarrà il nome del penultimo dei nostri che era stato seppellito lí in quella fossa. Tutto è stato consumato….
Già è l’ora di cena: dopo, solo pochi dei nostri rimarranno alzati ancora un po’. Si fanno gli ultimi controlli: nelle stanze si vede che non manchi niente per la notte, soprattutto la coperta perché di notte noi sentiamo freddo anche se la temperatura è di 27 gradi.
Velocemente arrivano le 8 di sera, gli operai tornano nelle loro case, io mi ritiro per concludere la messa, ma prima apro il mio e-mail e trovo un grande regalo, la rivista Il gallo

21 giugno

[...] Anch’io mi meraviglio che nella nostra comunità non sia entrato il virus. Gestire degli ammalati mentali non è facile, non riescono a capire il pericolo che corrono quando li inviti a rispettare certe regole.
Loro sono degli ammalati, ma quando il nostro ministro della educazione dice in pubblico che studiare la storia, la filosofia, la storia dell’arte è pura perdita di tempo e che non finanzierà questi studi, ti cascano le braccia. Per fortuna varie personalità a tutti i livelli lo hanno contestato e oggi ha presentato le dimissioni.
Spero di sbagliarmi, ma da noi, in Brasile, circola aria di colpo di stato… Pensavo che i militari fossero prudenti e si tenessero alla larga dal nostro presidente Bolsonaro, invece ieri un generale dello stato maggiore dell’esercito in un colloquio con il capo della magistratura – chiaramente hanno voluto che trapelasse – gli ha chiesto di controllare l’azione della magistratura. «Adesso basta – ha aggiunto Bolsonaro – indagini sugli inquisiti e sull’operato dei miei figli» – denunciati per abusi.
Posso garantire che la Chiesa brasiliana varie volte ha denunciato queste cose, senza paura di perdere gli aiuti del governo. Anche in questi giorni a un prete che aveva manifestato a favore della politica di Bolsonaro, la CNBB, il collegio dei vescovi, ha detto chiaramente che non è quello che la Chiesa pensa.
Sicuramente la foresta viene sistematicamente trasformata in pascolo o in campi per la coltivazione della soia.
L’incredibile è che hanno liberalizzato l’uso di 140 tipi di agrotossici proibiti nel resto del mondo: tutto questo mentre il coronavirus fa strage di gente. I dati ufficiali forniti su questa pandemia sono sottovalutati: devono almeno essere moltiplicati per dieci.
Da noi nell’Amapá, in città, penso che il picco sia stato raggiunto, mentre, nell’interno è una strage di intere famiglie e nessuno le contabilizza. Attualmente una persona che sente i sintomi del virus non va in ospedale: cerca di curarsi in casa con le medicine che riusciamo a comprare. Andare in ospedale è come saltare da un aereo in volo senza paracadute. La paura viene non solo per il fatto che gli ospedali sono super affollati, ma anche perché non ci sono infermieri professionali né medici che sanno usare le apparecchiature messe a disposizione dal governo centrale.